Gaza. Abu Mazen se la prende con Hamas per nascondere il suo fallimento politico

Aprile 26, 2025 - 07:30
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Gaza. Abu Mazen se la prende con Hamas per nascondere il suo fallimento politico

di Giuseppe Gagliano

Quando il presidente dell’Autorità Palestinese definisce i membri di Hamas “figli di cani”, il problema non è solo di linguaggio. È il segnale che, sotto le bombe, le tendopoli e la fame di Gaza, si sta consumando un’altra guerra: quella intestina tra palestinesi.
Il 23 aprile Mahmoud Abbas, da Ramallah, ha lanciato il più duro attacco verbale mai pronunciato contro Hamas dall’inizio del nuovo ciclo di violenza, 18 mesi fa. Ha accusato il gruppo islamico di aver offerto a Israele il pretesto per radere al suolo Gaza, di usare gli ostaggi come scudo politico, di ostinarsi a non consegnare né le armi né il controllo del territorio.
Parole che, sebbene dette in nome della pace, tradiscono un’altra verità: l’Autorità Palestinese, oggi, non rappresenta più gran parte del suo stesso popolo.
Dal 2007, con la vittoria elettorale di Hamas, la frattura tra i due poli della politica palestinese è diventata strutturale. Hamas controlla Gaza con le armi, Fatah governa parzialmente la Cisgiordania con il placet di Israele e dell’Occidente.
Quello che manca è una leadership unitaria, legittima e riconosciuta da entrambe le popolazioni. Abbas, 89 anni, è percepito da molti come un presidente postumo, privo di elezione, forza o visione. Hamas, per contro, è una macchina di potere armato che sopravvive sotto embargo e devastazione, ma che continua a rifiutare ogni compromesso che implichi disarmo o subordinazione.
Il progetto dell’Autorità Palestinese, uno Stato in fieri e costruito attraverso accordi, riconoscimenti internazionali e diplomazia, si è infranto sulla realtà. Abbas oggi è sostenuto più da Washington e Bruxelles che da Ramallah o Nablus.
I palestinesi osservano le missioni diplomatiche, non vedono in lui un leader. Lo tollerano, lo accusano, lo ignorano. Nonostante le pressioni degli Stati Uniti e delle monarchie del Golfo per un “passaggio ordinato” del potere in vista di una possibile amministrazione post-bellica di Gaza, Abbas non ha né il consenso né il carisma per imporsi. E Hamas non ha alcuna intenzione di cedere il campo.
Intanto Gaza affonda. Il blocco israeliano dura da 53 giorni. La malnutrizione cresce, gli ospedali sono al collasso, le scuole diventano obiettivi militari. Dieci civili sono stati uccisi in un bombardamento su un rifugio scolastico il 23 aprile.
Le cancellerie europee chiedono di “ristabilire il flusso umanitario”. Israele risponde che sono entrati 25.000 camion. Eppure, le agenzie ONU parlano di sopravvivenza negata.
In questo scenario, anche il dolore è strumentalizzato. Hamas pubblica il video di un ostaggio israeliano proprio alla vigilia della Giornata della Memoria dell’Olocausto. La sua famiglia denuncia il “fallimento morale di Israele”. Ma tutto, anche la memoria, viene risucchiato nel gioco della legittimazione.
I Paesi arabi propongono un piano di ricostruzione da 53 miliardi di dollari. Gaza verrebbe affidata a un comitato tecnico, per poi tornare sotto il controllo dell’ANP. Ma chi garantisce che ciò sia possibile? Chi convince Hamas a disarmarsi? Chi convince i palestinesi a credere ancora nell’ANP?
Abbas chiede a Hamas di diventare un partito politico. Hamas risponde che non deporrà le armi. In mezzo, 2,1 milioni di persone vivono senza acqua, senza cure, senza speranza.

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Redazione Redazione Eventi e News