Iran. Bandar Abbas in fiamme: sabotaggio, guerra strisciante e il fragile equilibrio del Medio Oriente

di Giuseppe Gagliano –
Venerdì scorso una violenta esplosione ha devastato il porto di Shahid Rajaee a Bandar Abbas, arteria vitale dell’economia iraniana e crocevia strategico all’imbocco del Golfo di Hormuz. Un bilancio provvisorio, ma già gravissimo: almeno 28 morti e oltre 750 feriti, incendi ancora attivi e una nube tossica che sovrasta la città.
Le cause ufficiali restano incerte. Ma la simultaneità di tre focolai, nel magazzino Sina, nel container yard e nell’Onik warehouse, rende sempre meno plausibile l’ipotesi di un semplice incidente industriale. Il sospetto di un sabotaggio cresce. E con esso l’ombra lunga della destabilizzazione regionale.
Il momento dell’attacco non è casuale. L’esplosione è avvenuta mentre rappresentanti di Iran e Stati Uniti erano riuniti a Muscat, in Oman, per un terzo round di negoziati, nel tentativo di riavviare il dialogo sul nucleare e distendere le tensioni.
Colpire Bandar Abbas, responsabile di oltre il 55% delle esportazioni e importazioni iraniane, significa colpire il cuore pulsante della Repubblica Islamica proprio nel momento della massima vulnerabilità diplomatica.
Una mossa che, se confermata come atto intenzionale, avrebbe come obiettivo non solo la destabilizzazione dell’Iran, ma anche il sabotaggio di qualsiasi tentativo di riduzione delle tensioni tra Teheran e Washington.
Negli ultimi anni si è consolidata a Teheran una visione strategica nota come war trap — la trappola della guerra: una strategia attribuita a Israele, che consisterebbe nel provocare una reazione militare aperta da parte dell’Iran, in modo da giustificare un’escalation militare più ampia e definitiva.
In questo quadro, sabotaggi, assassinii mirati e attacchi segreti non sono che tasselli di un disegno preciso: logorare l’Iran, costringerlo a reagire, farlo precipitare in una guerra devastante.
Un’ipotesi che molti analisti, come Sina Toossi del Center for International Policy, ritengono già in corso da anni, a partire dagli omicidi degli scienziati nucleari iraniani fino agli attacchi alle infrastrutture energetiche.
Finora la risposta di Teheran è stata improntata a una prudenza estrema. Anche dopo il lancio di missili contro Israele nel 2024, seguito da una rappresaglia israeliana misurata, la leadership iraniana, dalla guida suprema Ali Khamenei ai riformisti, ha privilegiato l’autocontrollo, ben consapevole che una guerra aperta sarebbe catastrofica.
Ma il dibattito interno si fa sempre più acceso.
Sempre più voci, anche nei ranghi conservatori, accusano la leadership di eccessiva debolezza. Temono che l’assenza di una risposta forte possa minare la deterrenza iraniana, incoraggiare nuovi attacchi e compromettere la posizione regionale del Paese.
Se dovesse emergere che l’esplosione di Bandar Abbas sia stata frutto di un’operazione di sabotaggio, magari riconducibile, direttamente o indirettamente, a Israele, le conseguenze interne sarebbero enormi.
I falchi guadagnerebbero terreno. Le pressioni per una risposta forte, magari apertamente militare, si moltiplicherebbero.
Il rischio? Una spirale di escalation incontrollabile, in grado di travolgere non solo i negoziati sul nucleare ma l’intera architettura di sicurezza della regione.
Il tutto si innesta in un contesto ancora più instabile: il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Se da un lato Trump sembra oggi più cauto rispetto a un confronto diretto con Teheran, memore delle promesse elettorali di “no more endless wars”, dall’altro lato il presidente deve fronteggiare le pressioni di una vasta parte dell’apparato politico americano, profondamente legato agli interessi israeliani, per mantenere una linea di massimo rigore contro l’Iran.
Se il sabotaggio venisse confermato, non sarebbe solo un attacco a Teheran. Sarebbe anche un attacco ai fragili equilibri di una politica americana sempre più polarizzata, in cui ogni spiraglio di negoziato rischia di essere soffocato prima ancora di nascere.
In assenza di prove certe, ogni scenario resta ancora possibile. Ma la posta in gioco è chiara:
Non è solo l’Iran a rischiare l’escalation. È l’intero Medio Oriente, già piegato dalle guerre, dalla crisi di Gaza, dall’ombra dell’instabilità libanese, a rischiare di precipitare in una nuova fase di conflitto aperto.
E forse, come spesso accade, dietro le esplosioni più devastanti si cela non solo un nemico, ma l’intero fallimento di un ordine internazionale incapace di produrre pace.
Qual è la tua reazione?






