La grande scommessa di Trump: svalutare il dollaro per rilanciare la manifattura

Aprile 16, 2025 - 08:57
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La grande scommessa di Trump: svalutare il dollaro per rilanciare la manifattura

Articolo tratto dal numero di aprile 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

Forse dietro il caos c’è un barlume di logica, e per sbrogliare la matassa bisogna partire proprio dalla grande villa di Donald Trump, Mar-a-Lago, in Florida. Lì, secondo voci insistenti a Wall Street, potrebbe essere firmato un piano per ridefinire il sistema industriale e finanziario globale. L’idea è questa – in fondo non tanto diversa da quella della passata amministrazione Biden: la globalizzazione va riformata perché l’apertura degli scambi, soprattutto nei confronti della Cina, ha danneggiato l’industria americana. Per tanti anni il fatto che la produzione si spostasse in Asia era visto come qualcosa di positivo. Abbassava i costi, portava efficienza; le società accumulavano utili e gli americani godevano di prezzi più bassi. Ma i tempi sono cambiati: già Biden credeva che, nella grande competizione con la Cina, l’industria andava riportata in patria. La differenza è che oggi l’approccio di Trump è di rottura, molto più radicale.

Gli ‘accordi di Mar-a-Lago’

Quel mondo di regole e apertura dei mercati, e la promessa americana di sostenere entrambi, si sta disfacendo. E sono gli stessi Stati Uniti a smantellarlo. Trump ha aperto contemporaneamente una guerra dei dazi su quattro fronti: Canada, Messico, Cina e Unione europea. È un rischio enorme. Gli Usa potrebbero scivolare in recessione, ammette Trump, malgrado le sue promesse iniziali di boom economico. Tuttavia, sia in pubblico che in privato, continua a sostenere che “un piccolo scossone” per l’economia e i mercati sia un prezzo più che accettabile per riportare la manifattura in America. Ed è qui che entra in gioco il presunto patto da stipulare nella sua casa in Florida, i cosiddetti ‘accordi di Mar-a-Lago’.

L’idea di fondo è che un dollaro forte penalizza l’industria manifatturiera e le esportazioni americane. Ridurne il valore renderebbe i prodotti statunitensi più competitivi sui mercati globali, riequilibrando gli scambi e riducendo il deficit commerciale. Quarant’anni fa il lussuoso Plaza Hotel di New York entrò nella storia della finanza: lì il governo degli Stati Uniti convinse Regno Unito, Giappone, Germania e Francia a svalutare il dollaro per rilanciare la competitività industriale americana. Finanzieri, banche d’affari e analisti ipotizzano che potrebbe accadere di nuovo, forse proprio quest’anno, secondo alcuni trader sentiti dal Financial Times. L’aneddoto curioso è che Trump comprò il Plaza Hotel nel 1988, facendolo però fallire quattro anni dopo (una delle sue tante bancarotte). Che sia un cattivo presagio? In effetti per molti economisti tradizionali questo nuovo accordo appare piuttosto acrobatico, se non del tutto inverosimile.

Il sistema del semaforo

Il primo ostacolo: gli invertenti sulle monete forzano le regole di mercato. Il secondo, quello più ostico, è che, se si vuole comunque intervenire, queste manovre funzionano meglio tra alleati fidati. Oggi diversi partner, come Francia e Germania, sono restii ad assecondare Washington. Per non parlare della Cina, che sarebbe del tutto ostile. Ma la volontà e le risorse americane non vanno sottovalutate. Trump potrebbe ricorrere ai suoi metodi coercitivi sugli alleati come su paesi rivali.

Scott Bessent, il segretario al Tesoro, ritiene che Trump chiederà ai governi di scegliere tra tre categorie: rosso (nemici), giallo (interlocutori) e verde (amici). I paesi verdi avranno protezione militare e agevolazioni tariffarie, ma in cambio dovranno accettare un accordo valutario. Alcuni stati gialli o perfino rossi potrebbero comunque trovare un’intesa. L’idea è che Mar-a-Lago si giochi in due tempi: prima con gli alleati, poi con gli altri. Ma dal punto di vista tecnico, come si fa a indebolire il dollaro conservandone il ruolo di valuta di riserva globale? Il piano sembra quello di allungare i tempi del debito americano. Trump potrebbe spingere i governi a scambiare riserve in dollari o Treasury a breve termine con obbligazioni a lungo termine o perpetue. Con meno pressione fiscale, la Federal Reserve potrebbe adottare una politica espansiva, con l’effetto di svalutare la moneta. Un intervento che, in futuro, si renderebbe necessario per controbilanciare l’impatto dei dazi, che tendono invece a rafforzare il dollaro.

Il precedente (poco incoraggiante)

La realtà di questi giorni, tuttavia, è che l’approccio irruente e caotico di Trump sta facendo deragliare la crescita americana. Il dollaro è sì sceso, ma per i motivi sbagliati. L’obiettivo del protezionismo trumpiano è sviluppare il mercato interno, potenziando l’industria, attirando investimenti, con il risultato di un apprezzamento del dollaro. Nel giro di poche settimane, invece, la rottura dell’equilibrio e l’incertezza sui dazi hanno tolto fiducia e slancio all’economia statunitense. Mentre Wall Street perdeva, un’ondata di ottimismo si è diffusa sulle Borse europee. La cosa è attribuibile a dati migliori del previsto, ma anche all’azione dei governi, che, scossi dal duo Putin-Trump, valutano piani di investimento nella Difesa, spingendo in alto soprattutto le azioni del settore militare. Il dollaro è sceso drasticamente rispetto all’euro e i titoli di Stato tedeschi, benchmark in Europa, hanno registrato il più grosso aumento dalla caduta del muro di Berlino.

Anche l’ultima volta che Trump ha tentato qualcosa di simile, pur se su scala molto più piccola, l’esperimento è fallito. Nel 2018 ha messo dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Diceva che servivano per la sicurezza nazionale e che avrebbero creato più posti di lavoro. I prezzi sono schizzati in alto e per un breve periodo si sono aggiunti circa cinquemila dipendenti. Durante la pandemia alcuni dazi sono stati tolti, e oggi l’industria ha gli stessi lavoratori di allora. Il vero problema, però, è un altro: studi su studi hanno mostrato che il resto dell’economia ha pagato il conto. Si parla di oltre 75mila posti di lavoro persi nei settori che usavano acciaio e alluminio importati. E nel frattempo la produttività dell’acciaio è scesa, mentre è salita nel resto del manifatturiero americano.

Lo spettro della stagflazione

Oggi Trump sembra avere in mente qualcosa di molto più ambizioso. Davvero si lascerà frenare dalla caduta del mercato azionario? C’è un fatto che a volte gli analisti trascurano. Questa volta Trump è meno vincolato dai sondaggi perché non può candidarsi per un terzo mandato. Potrebbe fregarsene dell’opinione pubblica, inseguendo un piano a lungo termine. Da decenni sostiene i benefici dei dazi. È convinto che possano porre fine a un’era in cui, a suo dire, l’America è stata dissanguata da alleati e paesi rivali. A novembre, quando è stato eletto, Wall Street sperava in deregulation e tagli delle tasse. I dazi erano visti come un boccone indigesto, ma c’era fiducia che non fossero il piatto principale.

A onor del vero, non tutti i finanziari sono ostili a un certa dose di protezionismo. Ecco cosa dice al Wall Street Journal l’ex ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein: “Viste nel loro insieme, queste politiche hanno una logica; nel breve periodo i mercati rischiano scossoni, ma alla lunga il Paese ci guadagna: meglio pagare qualche migliaio di dollari in più per un’auto che ritrovarsi senza operai in grado di produrla o permettersela”. Ma l’opinione prevalente è negativa. L’economista Larry Summers, che aveva previsto la fiammata dei prezzi nell’era Biden, teme lo scenario peggiore: stagflazione. “Questi dazi sono uno shock dell’offerta autoimposto. Riducono i beni disponibili per l’economia e aumentano i prezzi. Risultato: inflazione più alta e crescita più bassa,  una spinta verso la stagflazione”.

A quel punto che cosa succederebbe al dollaro? Si svaluterebbe, al costo però di un danno all’economia americana. Chissà se anche questo rientra nei calcoli degli strateghi di Mar-a-Lago: il Financial Times ipotizza che alcuni di loro vedano nella recessione persino dei vantaggi. Prezzi degli asset più bassi potrebbero anche frenare l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, soprattutto se un dollaro debole desse una spinta all’industria.  

L’articolo La grande scommessa di Trump: svalutare il dollaro per rilanciare la manifattura è tratto da Forbes Italia.

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