Basta fondi all'università che perseguita gli ebrei

Non ha fatto solo bene: ha fatto benissimo l'Amministrazione Trump a cancellare con un tratto di penna 400 milioni di dollari (su un totale annuo di 639 nel solo 2024) di sovvenzioni e stanziamenti destinati a vario titolo alla Columbia University. Motivazione? La mancata protezione degli studenti e delle studentesse di religione ebraica durante le proteste cosiddette “pro Gaza” dei mesi scorsi. Spiace dover svolgere – temiamo non in vasta compagnia – la parte dei grilli parlanti, nel fare il confronto tra il nuovo vento che spira negli Stati Uniti e l'aria viziata che tuttora si respira nelle università italiane. Ancora nei mesi scorsi la Crui, cioè la conferenza dei rettori delle università italiane, ha prodotto e diffuso documenti non privi di qualche buona intenzione, ma purtroppo caratterizzati da un cedimento culturale di fondo. Primo. Ha sostenuto la Crui che non ci sia stato alcun boicottaggio della collaborazione scientifica con le università israeliane. E ci mancava solo che

Basta fondi all'università che perseguita gli ebrei

Non ha fatto solo bene: ha fatto benissimo l'Amministrazione Trump a cancellare con un tratto di penna 400 milioni di dollari (su un totale annuo di 639 nel solo 2024) di sovvenzioni e stanziamenti destinati a vario titolo alla Columbia University. Motivazione? La mancata protezione degli studenti e delle studentesse di religione ebraica durante le proteste cosiddette “pro Gaza” dei mesi scorsi. Spiace dover svolgere – temiamo non in vasta compagnia – la parte dei grilli parlanti, nel fare il confronto tra il nuovo vento che spira negli Stati Uniti e l'aria viziata che tuttora si respira nelle università italiane. Ancora nei mesi scorsi la Crui, cioè la conferenza dei rettori delle università italiane, ha prodotto e diffuso documenti non privi di qualche buona intenzione, ma purtroppo caratterizzati da un cedimento culturale di fondo. Primo. Ha sostenuto la Crui che non ci sia stato alcun boicottaggio della collaborazione scientifica con le università israeliane. E ci mancava solo che ci fosse in questi termini espliciti e sfacciati.

Tuttavia – e non ci pare meno grave – c'è stata la scelta di diversi atenei di non rinnovare tali accordi o di non partecipare ai relativi bandi. Resta indimenticabile il caso di Torino, con una decisione assunta in un clima surreale, con tanto di irruzione degli studenti pro Palestina (armati di bandiere e striscioni) in piena riunione dell'organismo dell'ateneo. I docenti – non sapremmo dire se intimiditi o culturalmente omogenei rispetto ai cori dei manifestanti – avrebbero ascoltato e poi, secondo quanto riferiscono le cronache di quei giorni, avrebbero risposto: «Riceviamo il documento e ne discuteremo al momento opportuno». Ma i manifestanti avrebbero chiesto di «essere partecipi della decisione», ottenendo l'obbedienza finale dei professori. È forse normale tutto questo? Secondo. Restano in piedi – non di rado in numero superiore rispetto a Israele – accordi e intese di collaborazione con università di paesi autoritari, a partire dall'Iran. Dunque l'Italia finisce per accettare la discriminazione di enti culturali israeliani (come se fossero espressione dell'esercito di Gerusalemme odi una maggioranza politica) e invece non apre la discussione su autocrazie e dittature nelle quali è per lo meno improbabile supporre un'autonomia culturale delle istituzioni culturali pubbliche.

 

 

Terzo. Si continua a parlare di diritto al dissenso: e – ovviamente – per chi ama la libertà di pensiero e di parola siamo di fronte a qualcosa di sacro. Ma non si può far finta di non cogliere la differenza tra l'esercizio di un dissenso – anche pubblico e vibrante – e il tentativo di impedire con la forza che degli eventi “sgraditi” si tengano, odi imporre decisioni ideologicamente orientate. È forse diritto al dissenso impedire conferenze, allontanare relatori o costringerli ad andarsene, picchiare le forze dell'ordine? Quarto. Si continua a non vedere – e si tratta di una cecità allarmante – che oggi le persone davvero a rischio, nelle scuole e nelle università italiane, sono gli studenti e i docenti di religione ebraica, o chiunque simpatizzi (o sia sospettato di farlo) per le posizioni di Israele. È ormai fatto notorio che molti studenti di religione ebraica non si sentano più sicuri nel frequentare i loro luoghi di studio, e meno che mai nel manifestare il proprio credo e le proprie opinioni. Vogliamo fingere che tutto questo sia accettabile?

Quinto. Mesi fa abbiamo dovuto leggere – un po' increduli – che una delle soluzioni proposte nel documento della Crui, «in caso di interruzioni o fenomeni di intolleranza», era quella «di svolgere eventi in altra modalità (per esempio online)» al fine di non cancellare l'appuntamento. Ma stiamo scherzando? Una soluzione del genere è già un cedimento pressoché totale: significa che – fisicamente – i prepotenti possono rivendicare una vittoria, che il territorio universitario è cosa loro.
E a quel punto, anzi, tutto lo sforzo dei violenti sarà proprio quello di ottenere un risultato del genere, un no-platforming o un de-platforming fisico (cioè cacciare dei relatori o impedire delle conferenze), lasciando – bontà loro – ai soggetti sgraditi la possibilità di rifugiarsi in territorio virtuale. Inutile girarci intorno: siamo lontanissimi da quanto sarebbe necessario affermare con forza contro ogni censura e contro qualsiasi prepotenza. Per queste ragioni, Libero torna a proporre un passo di limpida impronta liberale: e cioè il ritiro dei finanziamenti pubblici a qualunque luogo o istituzione universitaria o educativa dove siano avvenute forme di censura, dove si siano registrati atti di discriminazione su base politico-ideologica, dove sia stato praticato il no platforming o il de-platforming. Una ricetta dura? Certamente. Ma chiarissima e semplice, direi inequivoca. Sei un'università? Sei una scuola pubblica? Ricevi il denaro dei contribuenti? Se però ti sei reso protagonista di un comportamento censorio, se lo hai accettato o addirittura promosso, non potrai ricevere i soldi dei cittadini. Si dirà che è una soluzione provocatoria: in qualche misura lo è, ma non nel significato deteriore dell'aggettivo. Semmai, è provocatoria nel senso che vuole provocare una presa di coscienza e una svolta.

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