Da designer a celebrity: l’evoluzione (e il dilemma) dei direttori creativi

Chi sono i direttori creativi di oggi? Designer a capo di un ufficio stile interamente dedicato al prodotto, menti capaci di partorire strategie di marketing ‘diaboliche’ o celebrity che incarnano molto più l’appeal di un divo hollywoodiano che quello di una guida stilistica? A guardare il parterre attuale, spaccato da un instancabile gioco di poltrone, […]

Da designer a celebrity: l’evoluzione (e il dilemma) dei direttori creativi
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Chi sono i direttori creativi di oggi? Designer a capo di un ufficio stile interamente dedicato al prodotto, menti capaci di partorire strategie di marketing ‘diaboliche’ o celebrity che incarnano molto più l’appeal di un divo hollywoodiano che quello di una guida stilistica? A guardare il parterre attuale, spaccato da un instancabile gioco di poltrone, verrebbe da decretare che non ci sono più regole precise quando una maison pensa all’assunzione di tale figura. Perché sì, i requisiti si sono sempre più diversificati e gli obiettivi dei grandi conglomerati del lusso sembrerebbero non includere ormai solo la vendita dei singoli capi, quanto anche il tentativo di abbracciare ogni opportunità di incontro con il (potenziale) consumatore. Ed è qui che, allora, la creatività degli stilisti moderni spazia ed esce dalla sfilata per atterrare dritta nell’entertainment, includendo collaborazioni di vario genere, contratti per il mondo del cinema e del teatro. Ed è così che i direttori creativi diventano in qualche modo anche talent, a intendere proprio una persona con una certa notorietà o competenza in un settore specifico.

A suggerirlo, ipotizzando quello che nei prossimi anni potrebbe diventare a tutti gli effetti un trend, è stato Jonathan Anderson, mente dietro lo stile di Loewe (è di tre giorni fa la notizia della fine della sua direzione) e Jw Anderson, nonché costumista degli ultimi due film dell’amico e regista Luca Guadagnino, quando, lo scorso dicembre, ha firmato con l’americana Uta (United Talent Agency). Realtà con cui i marchi del lusso sono già soliti collaborare per individuare i talenti più adatti ai loro progetti (il suo roster include anche Riccardo Tisci, designer ed ex direttore creativo di Burberry e Givenchy), da campagne a sponsorizzazioni social e accordi commerciali di vario genere, sulla base di dati sempre più specifici dell’audience.

La copertina di Queer di Luca Guadagnino, per cui Jonathan Anderson ha curato i costumi, Ph. Courtesy of Jw Anderson

L’obiettivo della firma di Anderson? Espandere la sua influenza creativa in tutte le forme di storytelling possibile, si leggeva sul sito dell’agenzia. “Basandoci sul suo già straordinario successo” – aveva poi sottolineato, come riporta The Hollywood Reporter, Blair Kohan, partner e board member dell’agenzia. E se allora lo stilista è a un passo dal grande schermo, proprio come nel caso di Anderson, il binomio tra fashion e spettacolo si fa ancora più stretto e, talvolta, indissolubile. “Il fenomeno non mi sorprende perché i due settori, moda ed entertainment, si sono fusi, e perché è quasi come se oggi la moda – intesa come disegno di prodotto – fosse sostanzialmente un accessorio di questa industria che produce contenuti. È un fenomeno molto interessante, che si sta dipanando adesso, e penso che i contorni siano ancora un po’ difficili da tracciare” – spiega a Pambianco Magazine Angelo Flaccavento, giornalista e critico di moda per The Business of Fashion e Il Sole 24 Ore.

Creativi della ego-generation

A delinearsi, in parte, è però la scissione tra la figura più ‘tradizionalista’ del direttore creativo, un personaggio perlopiù noto agli insider, e il creativo-celebrity, che può persino vantare un importante seguito sui social e una vera e propria community alle spalle. In questo, la fama – presumibilmente non ricercata – di Alessandro Michele, ora alla guida di Valentino, è un esempio calzante. Ma anche, volendo estremizzare, la nomina dell’artista e rapper americano A$AP Rocky a primo direttore creativo del marchio eyewear Ray-Ban si allinea perfettamente. Ad ogni modo, in entrambi i casi bisogna precisare come non esista il giusto o lo sbagliato, ma solo differenti scuole di pensiero e una metrica diversa in materia di numeri, fatturati e dell’immagine che si vuole dare.

Alessandro Michele in uscita alla sua prima sfilata couture per Valentino, Ph. Launchmethrics/Spotlight

“Fino a qualche tempo fa, il direttore creativo era una figura un po’ secondaria. Lo conoscevano gli addetti ai lavori, ma non era certo noto al grande pubblico. Oggi, invece, il mondo si sta sempre più spettacolarizzando” – commenta Cristina Manfredi, giornalista di moda e lifestyle e penna de L’Officiel, Marie Claire e Vanity Fair, interrogandosi su quanto questo approccio sia effettivamente vincente. “Ora, che questa dinamica possa funzionare per tutti è un altro discorso. Ci sono personaggi – sottolinea Manfredi – che amano essere protagonisti e che hanno costruito parte della loro fortuna proprio su questa capacità. Se pensiamo a Walter Albini o Halston (all’anagrafe Roy Halston Frowick, ndr.), senza neanche scomodare i contemporanei, entrambi incarnavano in prima persona l’ideale che volevano trasmettere. Pensiamo invece al direttore creativo di Louis Vuitton, Pharrell Williams. E, prima ancora, a Fenty con Rihanna. Una fusione tra entertainer, artista e creativo si stava già profilando”.

Oggi, però, facciamo uno step in più: il direttore creativo si eleva a celebrity, e il problema può sopraggiungere quando il meccanismo alla base pare forzato e poco onesto. “Faccio un riferimento anche a Sabato De Sarno (guida stilistica di Gucci fino allo scorso febbraio, ndr.). Lui – aggiunge Manfredi – è un personaggio che non aveva minimamente questo tipo di attitude. Però, a un certo punto, hanno cercato di trasformarlo in quella figura, dedicandogli persino un cortometraggio. In quel caso, però, l’operazione è sembrata forzata. Guardando invece al suo predecessore, Michele è un personaggio che, secondo me, potrebbe tranquillamente comparire in una serie tv o avere un suo show”.

A$AP Rocky e Sabato De Sarno al LACMA Art+Film Gala 2023, Photo by Stefanie Keenan/Getty Images for LACMA)

“Mi sembra che nella moda ci siano spesso due moti opposti e sovrapposti – prosegue Flaccavento -. Perché da una parte è così: Michael Rider (nuovo direttore creativo di Celine, ndr.) ad esempio è uno stilista bravo arrivato dalle retrovie, a cui è stato affidato il disegno di un prodotto. E forse creerà un immaginario partendo proprio dal prodotto, non dal suo status di artista o entertainer. L’impressione è sempre che nella moda ci sia l’idea di andare in una direzione, ma anche il backup di andare in quella opposta. O la semplice coesistenza. Naturalmente poi si parla di scale, di marchi differenti. Certamente, la spettacolarizzazione del ruolo del direttore creativo è il risultato anche di una società che è molto interessata allo status di celebrity. Quindi, la fama come surrogato di talento è reale. È reale come strategia”.

Colossi dal grande schermo

Il motivo per cui molti creativi abbracciano questo profilo più artistico e non relegato esclusivamente all’ufficio stile lo si potrebbe trovare nella crescente necessità di espandere la propria influenza oltre il settore della moda tradizionale. Un cambiamento nel modo in cui interagiscono con il mondo del business, puntando su una maggiore interdisciplinarità per rafforzare il proprio ‘brand personale’ e accedere a nuove opportunità di mercato, rafforzando quindi la loro immagine come ‘figure culturali’.

Resta, per il momento, un dubbio irrisolto: se questo nuovo volto del direttore creativo sia molto spesso uno slancio personale, ricercato quindi dal creativo stesso, o se siano gli stessi colossi del lusso, e quindi Kering ed Lvmh, a spingere in quella direzione (spesso a discapito proprio della credibilità). Anche perché entrambi, proprio in ottica diversificazione, hanno fatto negli ultimi due anni operazioni che guardano molto al cinema e allo spettacolo: il gruppo guidato da Bernard Arnault ha lanciato a febbraio dello scorso anno 22 Montaigne Entertainment, la nuova venture dedicata alla collaborazione con creatori, produttori e distributori nel mercato dell’intrattenimento. Mentre Kering ha ufficialmente sposato il mondo del cinema con Saint Laurent Productions, una società sussidiaria guidata dallo stesso direttore creativo del marchio Anthony Vaccarello e che ha già prodotto e presentato al Festival di Cannes film come ‘Strange Way of Life’, diretto da Pedro Almodóvar, e ‘Parthenope’, l’ultima impresa cinematografica di Paolo Sorrentino, in cui – non a caso – la protagonista sfoggiava dei perfetti completi Saint Laurent. Poco prima, la scommessa del numero uno di Kering, François-Henri Pinault, si era allargata anche allo show business. A settembre 2023, Artémis, la holding che fa capo alla famiglia Pinault, è diventata azionista di maggioranza dell’agenzia americana Creative Artists Agency (Caa), colosso dei talenti di Hollywood fino a quel momento in mano al fondo di private equity Tpg.

Un estratto di ‘Parthenope’ di Paolo Sorrentino, prodotto da Saint Laurent Production Ph: @paolosorrentino_real via Instagram

“Mi verrebbe da dire che spesso il creativo vuole allargarsi, perché ormai la creatività sembra reale soltanto se è multidisciplinare. È quasi come se (i direttori creativi, ndr.) si sentissero limitati a fare solo una cosa. Quindi, diciamo che c’è un ego-pleasing che nasce dallo sconfinare, ma non saprei dirlo con certezza. Ad esempio, nel caso di Jonathan Anderson, sono certo che la sua attitudine a collezionare cose, quindi a lavorare come un curatore, è reale. Non è un fatto di ego debordante”, aggiunge Flaccavento.

“Forse questo è anche un modo per i brand di cercare di agganciare e appassionare un pubblico che è sempre più consapevole di ciò che compra. È difficile riconoscere se sia l’ego straripante di un direttore creativo o una reale richiesta delle aziende – conclude Manfredi –. Certo è che ci saranno sempre designer che preferiscono restare nell’ombra e altri che, al contrario, vogliono apparire. Il punto, nel secondo caso, è: sei credibile in questa tua dimensione di talent o in qualche modo ti stai imponendo perché pensi di doverlo fare? Secondo me, sei credibile nella misura in cui riesci a dimostrare sul campo di avere reali capacità progettuali nella moda”.

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