Gap Year: aumentano i giovani che dedicano l’anno sabbatico al volontariato

«Mi prendo un anno sabbatico»: la frase fa sorridere, pronunciata da un giovane con lo zaino di scuola sulle spalle e il vocabolario di latino sotto braccio. Eppure, sono tanti gli studenti e le studentesse che, mentre iniziano a preoccuparsi per la maturità, decidono di concedersi una pausa. Una scelta discutibile, che inevitabilmente rimanda all’immagine dei giovani “divanisti”, fannulloni e disimpegnati, che dalla vita hanno così tanto che non devono più guadagnarsi niente. Eppure, c’è un’altra chiave di lettura per un fenomeno che dall’estero – dove già da anni è radicato e diffuso – sta prendendo piede anche in Italia: forse non è una scelta sbagliata, anzi è il segno di una piccola grande rivoluzione, che riguarda non solo l’atteggiamento nei confronti del lavoro, ma un nuovo modo d’intendere i diritti, la libertà, le possibilità, in un mondo che è sempre più a portata di mano.
Un anno perso o un anno guadagnato?
Va detto innanzitutto che l’anno sabbatico solo raramente si traduce in un anno di “riposo”: nella maggior parte dei casi, questo periodo viene dedicato all’acquisizione di competenze o a esperienze di vita, di volontariato o servizio civile, oppure a prime attività lavorative. Tanto che un anno apparentemente perso può diventare invece un anno guadagnato, o comunque molto ben speso. Ne è convinto Andrea Portante, che a questo tema ha dedicato un libro dal titolo eloquente: Gap Year. Un anno per crescere, edito dal Touring Club Italiano. «Più che un libro, vuole essere un modo per sensibilizzare e anche accompagnare i ragazzi e le ragazze a cogliere questa opportunità. Un’opportunità che c’era anche in passato, a dire il vero: mia madre, nata nel 1928, negli anni ’50 fu una delle prime ragazze alla pari in Inghilterra. E proprio in Inghilterra, così come in Nord Europa e in America, questa esperienza si è diffusa già da molti anni, mentre in Italia inizia ad affermarsi solo ora. Spesso, purtroppo, in una forma che ne snatura la sostanza».
In che senso? «Il gap year sta diventando un mercato: ci sono agenzie che vendono pacchetti all inclusive che solo pochi benestanti possono permettersi. E in questo modo si perde l’obiettivo di questa esperienza, che consiste soprattutto nell’imparare a organizzarsi, a programmarsi, a risolvere i problemi, ad affrontare le difficoltà», spiega Portante. «YouTube è pieno di video satirici sulla routine del gap year di ricchi inglesi o americani che passano dalla cura delle tartarughe in Sri Lanka alle scalate in Nepal, tutto rigorosamente organizzato e guidato. Io credo sia sempre meglio partire che restare, ma certo così si perde metà dell’esperienza, che consiste appunto nel mettersi alla prova, trovare i soldi, organizzarsi la vita».
Pacchetti all inclusive a parte, quali sono le forme più diffuse? «Sicuramente l’esperienza di studio o di lavoro all’estero è predominante, anche perché si sta diffondendo la percezione che per trovare un buon lavoro, gratificante e ben pagato, si debba andare all’estero. Allora ha senso provare ad andarci prima, magari anche soltanto per qualche mese. Un’altra tipologia di gap year molto diffusa è quella dedicata al volontariato, alla solidarietà, alla cooperazione: anche questa può essere un’esperienza gratificante e molto formativa, purché ci si affidi a organizzazioni serie e rispettose del contesto».
Impegno e volontariato
Proprio dell’interesse crescente per le esperienze di volontariato all’estero, a breve o lungo termine, da parte di giovani neo diplomati in pieno gap year ci parla Matteo Saporiti, referente per i campi di volontariato e la mobilità del Corpo Europeo di Solidarietà per SCI Italia (servizio civile internazionale). «Le esperienze di volontariato a lungo termine, come i campi di volontariato, attirano sempre di più i ragazzi e le ragazze tra i 18 e i 25 anni», dice. «Lo scorso anno abbiamo inviato 154 volontari: circa 80 appartenevano a questa fascia d’età. Il volontariato a lungo termine è particolarmente gettonato tra chi non sa cosa fare dopo le superiori: come il servizio civile, è un’esperienza totalmente finanziata, che prevede anche un pocket money mensile, comprende vitto e alloggio e copre le spese del viaggio per andata e ritorno, oltre all’assicurazione e al corso di lingue. Anche per questa sua sostenibilità, oltre per la sua alta valenza formativa, è una proposta che sempre più attira i giovanissimi: rispetto al servizio civile, ha anche il vantaggio di essere disponibile ogni periodo dell’anno, senza essere vincolato a un bando».
Una buona scelta per chi esce dalle scuole superiori o sarebbe più indicata per ragazzi più formati e maturi? Saporiti pensa che possa essere «un ottimo strumento di orientamento post-diploma per chi è indeciso sul proprio futuro. Sicuramente, è un ottimo modo per impiegare un gap year, perché permette di sperimentarsi nel lavoro e nell’autonomia, senza però sovraccaricarsi di responsabilità e allo stesso tempo è un’occasione per imparare, scoprire e scoprirsi. Al tempo stesso, però, è un’esperienza utile per chi si è già formato e ha scelto di lavorare in questo ambito».
I neodiplomati possono davvero rappresentare una risorsa utile all’interno delle attività di volontariato? «Dipende», aggiunge Saporiti. «Da un lato, i volontari più adulti hanno un approccio più maturo al lavoro, specialmente se hanno già qualche esperienza. Anche i giovanissimi però sanno essere molto seri, se sono motivati a imparare e danno valore all’esperienza che hanno scelto: per loro, un gap year vissuto in un’esperienza di volontariato può essere davvero molto formativo: per me i campi di volontariato e il servizio civile in Perù sono stati molto più formativi dell’intero percorso universitario. E poi, per studiare c’è sempre tempo, ma per fare certe esperienze no: perciò sì, credo che un’esperienza del genere vada benissimo anche subito dopo le superiori. Chi è motivato, si butti senza timori, le occasioni non mancano».
E se avessero ragione loro?
Proprio sulle motivazioni dei giovani, che possono nascondersi anche dietro quel “procrastinare” che poco piace agli adulti, ci invita a riflettere Luca Pieti. psicologo del lavoro e delle organizzazioni, consulente e formatore, esperto di risorse umane e autore del libro Giovani, social e disoccupati. Alla scoperta di una generazione che rifiuta le tradizionali dinamiche lavorative.
Possibile che il gap year obbedisca allo stesso rifiuto di altre “tradizionali dinamiche”, come il passaggio automatico dalla scuola all’università, o al lavoro? «Sì, credo che alla base della scelta dell’anno sabbatico ci siano ragioni simili a quelle che portano i giovani ad avere, nei confronti del lavoro, un atteggiamento molto diverso da quello delle precedenti generazioni. E credo che un ruolo determinante lo svolgano Internet e i social network, che rappresentano il campo di esperienza in cui i giovani sono cresciuti. Noi siamo vissuti con un modello che finora non era mai stato messo in discussione: il lavoro di otto ore o anche più, la carriera, l’azienda che rimaneva la stessa per tutta la vita. Oggi tutto questo è saltato: da una parte perché i giovani hanno visto la nostra fatica, la frustrazione, la scontentezza e non vogliono che diventi anche la loro; dall’altra perché Internet mostra loro infinite possibilità, spesso low cost (l’intrattenimento digitale, ma anche i viaggi), che vogliono avere il tempo di vivere. La loro mentalità è completamente diversa dalla nostra: non sono più disposti a sacrificare tutto al lavoro e alla carriera, anche perché il riconoscimento sociale non arriva più dal lavoro, diventato sempre più precario e privo di gratificazioni. Per questo non hanno fretta di prendere la patente e non hanno fretta di iscriversi all’università».
Secondo Pieti, in parte hanno ragione: «Non si immolano a un futuro a lungo termine, di cui guerre e pandemia hanno mostrato la grande incertezza. Investono invece in loro stessi, si formano, fanno esperienza, acquisiscono competenze, diversamente da noi adulti, che spesso rifiutiamo di formarci. Noi puntavamo ad avere il posto fisso, loro non vogliono dipendere da nessuno, ma sono tutti imprenditori di se stessi. È una visione completamente diversa dalla nostra, per cui facciamo fatica a comprendere le loro scelte e più facilmente le critichiamo».
In effetti, l’anno sabbatico dei giovani è un’idea che non piace agli adulti… «Ma forse dovremmo abbassare le difese, noi adulti», conclude, «e farci guidare in un mondo che è cambiato e sta cambiando e che non possiamo continuare a guardare con gli stessi occhi, racchiudendolo negli stessi schemi».
Sono tanti gli studenti e le studentesse che, mentre iniziano a preoccuparsi per la maturità, scelgono di concedersi un anno di pausa per decidere con più consapevolezza sul loro futuro. Questo articolo fa parte di una piccola serie di approfondimenti sul gap year. Leggi anche:
Cento giorni alla maturità, e dopo? Mi prendo un anno sabbatico
Le fotografie sono del Corpo europeo di solidarietà
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