Il buco dell'ozono si sta richiudendo e, per una volta, possiamo attribuircene i meriti con (quasi) assoluta certezza. Gli scienziati del MIT sono riusciti a provare che i progressi nella riduzione dell'area erosa di ozonosfera sopra l'Antartide dipendono dal bando internazionale dei composti chimici che erodono l'ozono e non, per esempio, dalla variabilità naturale dell'atmosfera. La loro scoperta, spiegata in dettaglio su Nature, è la prima dimostrazione quantitativa del contributo dell'uomo alla risoluzione di un problema ambientale globale. Un'iniezione di fiducia in questi tempi difficili per la cooperazione internazionale.. Buco dell'ozono: origini di una guarigione. L'ozonosfera è quella zona della stratosfera terrestre, tra i 15 e i 50 km di altezza, dove si forma l'ozono atmosferico, un sottile ma efficace scudo che protegge la Terra dalla radiazione ultravioletta del Sole. Gli effetti nella distruzione dell'ozono in atmosfera dei clorofluorocarburi (CFC), gas artificiali un tempo usati come refrigeranti in frigoriferi, condizionatori, sostanze isolanti e propellenti per aerosol, sono noti dagli Anni '70 (ne abbiamo scritto diffusamente qui).. Nel 1985 un gruppo di scienziati della British Antarctic Survey scoprì un "buco" nell'ozonosfera che si apriva in corrispondenza dell'Antartide durante la primavera australe (da settembre a dicembre) e che permetteva ai raggi UV di raggiungere la superficie terrestre, provocando problemi di salute come melanomi e danni oculari.. A sancire il progressivo abbandono delle sostanze lesive dell'ozono stratosferico fu quello che viene considerato il trattato ambientale di maggiore successo, il Protocollo di Montreal. Nel 1987 vi aderirono le prime 90 nazioni: oggi sono 197, ossia tutti i Paesi rappresentati all'Onu. L'accordo, divenuto operativo nel 1989 ma perfezionato e adattato nel corso degli anni, impone limiti stringenti e un percorso di riduzione in vista del definitivo abbandono di tutti i composti dannosi per l'ozono, inclusi i clorofluorocarburi.. L'ozonosfera si richiude: è un caso, o c'entriamo anche noi?. Nel 2016, una ricerca pubblicata su Science e coordinata da Susan Solomon, chimica dell'atmosfera al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, riportò alcune evidenze chiave del recupero dell'ozono stratosferico. Dopo quasi 30 anni dal Protocollo di Montreal si iniziava a osservare una riduzione della zona mancante di ozono specialmente nel mese di settembre, il momento dell'anno in cui solitamente il "buco" compare. A settembre 2015, notava lo studio, il buco dell'ozono era circa 4 milioni di km quadrati più piccolo di quanto fosse nel 2000.
Si trattava, però, di osservazioni qualitative. Non era cioè possibile dire con sicurezza se il recupero fosse imputabile al bando di CFC & co. o alla variabilità climatica (per esempio all'influsso di fenomeni climatici come El Niño o La Niña, o al vortice polare).. L'impronta digitale delle nostre azioni virtuose. Nel nuovo studio, Solomon e colleghi hanno preso in prestito un insieme di tecniche usate nelle scienze del clima per individuare con precisione le cause del recupero dell'ozono stratosferico. In particolare hanno sfruttato un metodo chiamato fingerprinting ("impronta digitale"), che permette di isolare l'influenza di specifici fattori dal "rumore" di altri fenomeni naturali e meteorologici.
Questo approccio è stato usato nella climatologia per scorporare l'effetto sul clima delle attività antropiche da quello, per esempio, delle emissioni di origine vulcanica. Ogni processo ha un'impronta digitale riconoscibile, e imparare a riconoscerla è fondamentale per comprendere l'impatto delle nostre azioni e provare a migliorare. La messa a punto del fingerprinting è valsa al climatologo dell'Università di Amburgo (in Germania) Klaus Hasselmann il Nobel per la Fisica nel 2021 - insieme al climatologo giapponese Syukuro Manabe e, per l'altra metà, al nostro Giorgio Parisi.. Solomon e colleghi hanno usato il fingerprinting per identificare un diverso segnale antropogenico, ossia l'impatto, sul recupero dell'ozono, della riduzione dei CFC. Hanno generato varie simulazioni dell'atmosfera globale per generare tanti "mondi paralleli" in cui cambiavano alcune condizioni di partenza: per esempio, uno nel quale non vi fossero stati aumenti né nei gas serra né nelle sostanze lesive per l'ozono, e nel quale, quindi, ogni fluttuazione dell'ozonosfera fosse imputabile alla variabilità naturale, o altri che prevedevano che solo le sostanze che impoveriscono l'ozono fossero in diminuzione. . Il confronto di queste simulazioni ha permesso di capire come variava l'ozonosfera nelle varie stagioni e a differenti altitudini in base alle condizioni di partenza. Facendo così emergere sempre più chiaramente l'impronta digitale del recupero dell'ozono dovuto all'attuazione del Protocollo di Montreal. Quando gli scienziati hanno usato questa "impronta digitale" per interpretare le osservazioni satellitari del buco dell'ozono sull'Antartide dal 2005 ad oggi, hanno concluso che è possibile affermare con un intervallo di confidenza del 95% che il recupero è dovuto alla riduzione dei composti dannosi per l'ozono.. Insieme possiamo compiere imprese "impossibili". Secondo Solomon, se il recupero continuerà di questo passo arriverà un anno, probabilmente attorno al 2035, in cui il buco dell'ozono sull'Antartide non comparirà. E, con il tempo, questo cambiamento si consoliderà. Tutto questo «ci dà anche la fiducia di poter risolvere i problemi ambientali. Ciò che possiamo imparare dagli studi sull'ozono è come diversi Paesi possono rapidamente seguire questi trattati per ridurre le emissioni» conclude Peidong Wang, ricercatore al MIT nel gruppo di Solomon e primo autore del lavoro..