Il caso Sumy e le contraddizioni di una guerra mediatica

di Riccardo Renzi –
Domenica 13 aprile, mentre la Cristianità celebrava la Domenica delle Palme, due missili balistici Iskander si sono abbattuti sul centro della città ucraina di Sumy. Il primo ha colpito il centro congressi dell’università locale, il secondo un filobus in transito a poche centinaia di metri. Il bilancio è devastante: 34 morti accertati, centinaia di feriti, due bambini tra le vittime. Il lampo arancione, ripreso da una dashcam, ha subito fatto il giro del mondo, seguito dalle immagini strazianti dei soccorritori e delle macerie. Le reazioni sono state immediate, unanimi e furenti: dalla NATO all’Unione Europea, dagli Stati Uniti al governo italiano, la condanna per quello che è stato definito un “attacco vile”, “barbarico”, “orribile”.
Ma oltre il dolore, oltre la condanna, doverosa, c’è un campo minato fatto di verità parziali, omissioni strategiche e una narrazione pubblica sempre più piegata alla logica del consenso. Perché il bombardamento di Sumy, pur essendo inequivocabilmente un atto russo, porta con sé un’altra storia, più scomoda, più intricata. Una storia che pochi vogliono raccontare.
La scelta russa di colpire un centro cittadino in pieno giorno e in una festività religiosa, in una città a 40 chilometri dalla linea del fronte, è stata consapevole e calcolata. Nessuno, nemmeno a Mosca, nega la paternità dell’attacco. Nessuno ignora il rischio intrinseco, praticamente una certezza, che simili azioni causino vittime civili. Soprattutto in ambienti urbani e affollati. Ma ciò che i media occidentali hanno ignorato, o deliberatamente taciuto, è che in quel preciso momento, nel centro congressi colpito, era in corso una premiazione militare: la cerimonia per i combattenti della 117ma brigata della Difesa Territoriale ucraina.
Lo ha confermato Maryana Bezugla, deputata della Rada, che ha parlato apertamente della presenza di personale militare nel sito. Una dichiarazione che le è costata accuse di “connivenza” da parte di alcuni colleghi. Ma non è stata la sola: il sindaco di Konotop, Artem Seminikhin, ha rincarato la dose, accusando apertamente i vertici locali di negligenza, se non di irresponsabilità criminale. Secondo Seminikhin, il capo dell’amministrazione regionale, Vladimir Artyukh, era atteso alla cerimonia e sarebbe fuggito dopo l’arrivo del primo missile. Non mancano nemmeno accuse da ambienti militari, come quella dell’ex vice comandante dell’Azov, Igor Mosiychuk, che ha denunciato la presenza di civili e bambini all’interno della struttura, invitati, pare, per uno spettacolo previsto dopo la premiazione.
Se questa ricostruzione è anche solo parzialmente vera, il quadro si complica: l’attacco russo, pur orribile, avrebbe colpito un target militare, o almeno a prevalente composizione militare, scelto però con una modalità che rendeva inevitabili vittime civili. Dall’altro lato, l’Ucraina, consapevole della fragilità di una città come Sumy e della sua vicinanza al confine, ha consentito o persino promosso un evento militare in un contesto civile, in un giorno sacro, in un edificio non protetto. Una leggerezza, per usare un eufemismo, che ha trasformato un evento celebrativo in una strage annunciata.
Ma tutto questo nei telegiornali non si dice. O si insinua appena. Si parla, invece falsamente, di “munizioni a grappolo”, smentite da immagini e dai danni circoscritti. Le munizioni a grappolo creano effetti diffusi e frammentari; qui l’effetto è stato concentrato, devastante e mirato, come ci si aspetta da una testata ad alto potenziale. Quindi perché mentire? Perché falsare la dinamica quando la verità è già, di per sé, drammatica?
La risposta è semplice: l’emozione mobilita, la complessità spaventa. E la guerra, da tre anni a questa parte, si gioca anche, e soprattutto, sul piano narrativo. Ogni missile che cade è un’arma fisica e una munizione mediatica. La morte, se raccontata nel modo giusto, può valere consensi, aiuti, armi, trattati. E se le immagini fanno pietà, la pietà è spesso funzionale alla politica.
Quello che è accaduto a Sumy ha precedenti: da Mariupol a Donetsk, da Kharkiv a Belgorod, le città ucraine e russe sono state testimoni di attacchi che non hanno distinto tra militare e civile. Entrambe le parti hanno sbagliato, entrambe hanno mentito, entrambe hanno strumentalizzato. Eppure la voce della responsabilità è sempre univoca: la Russia, aggressore indiscusso, è (giustamente) il bersaglio principale delle condanne. Ma questa univocità non giustifica l’occultamento dei fatti scomodi né l’esaltazione delle mezze verità.
A tal proposito sono interessanti alcune domande poste dall’analista geopolitico Daniele dell’Orco in un suo recente post Facebook: “La vera domanda, oggi, non è chi ha sparato?, ma chi ha deciso di esporre civili in un contesto a rischio prevedibile? E ancora: quale narrazione ci viene fornita, e a quale scopo?”. Perché la guerra di Sumy, come tutte le guerre moderne, non si combatte solo con i missili, ma anche con le parole. E le parole, spesso, sono più taglienti e manipolabili delle armi.
Sumy è la fotografia esatta di questa fase del conflitto: una tragedia strumentalizzata, una responsabilità condivisa, una verità negata. È il paradigma di una guerra che, anziché avvicinarsi alla pace, si cristallizza in un eterno presente di sangue e propaganda. Mentre i bambini muoiono, mentre i missili volano, mentre i diplomatici parlano invano di tregua, il mondo continua a scegliere cosa vedere, cosa dire, cosa raccontare. E troppo spesso, sceglie comodo. Ma la geopolitica vera, quella che dovrebbe analizzare il mondo per quello che è, non può permettersi il lusso della parzialità.
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