Il dragone raffredda la sua fiamma. E preoccupa la filiera industriale italiana
A fine ottobre sulla stampa locale cinese è stato pubblicato un articolo secondo cui Chanel starebbe studiando drastici tagli al personale nella Repubblica Popolare Cinese come risposta al calo dei consumi di beni di lusso. L’indiscrezione, va detto, non era stata confermata dalla maison della doppia C. Al di là della presunta o meno correzione […]
A fine ottobre sulla stampa locale cinese è stato pubblicato un articolo secondo cui Chanel starebbe studiando drastici tagli al personale nella Repubblica Popolare Cinese come risposta al calo dei consumi di beni di lusso. L’indiscrezione, va detto, non era stata confermata dalla maison della doppia C. Al di là della presunta o meno correzione di rotta di Chanel in Cina, la notizia resta un segnale importante del clima di incertezza che ruota attorno al Dragone.
Quest’anno il Pil della Cina dovrebbe ridimensionare il suo slancio con una crescita attorno al 5%, ben lontana dagli incrementi a doppia cifra pre-pandemici e al momento la situazione di ripresa è condizionata dalla debole propensione al consumo, da una fiducia dei consumatori depressa, dal perdurare della crisi del settore immobiliare e dall’indebolimento del mercato del lavoro. Il governo ha stanziato negli ultimi mesi una serie di misure a sostegno dell’economia del Paese ma è troppo presto per capire quali saranno effettivamente i riscontri. Va da sé che la Cina sia sotto la lente di ingrandimento di analisti come anche di tutte le aziende del lusso che, di media, da qui traggono oltre il 20% dei ricavi totali annuali. Ma anche il made in Italy sta guardando con apprensione a quel che accade sotto la Grande Muraglia, per capire se e come cambiare le strategie commerciali. “La Cina, con un peso del 6,2%, è diventato il quinto sbocco commerciale per le esportazioni italiane di prodotti del tessile e abbigliamento e della filiera della pelle” sottolinea Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo. Per fare un raffronto, secondo l’analista nel 2008 la Cina era al 17° posto e “ha guadagnato posizioni grazie ad una crescita media annua del 12,4%”, aggiunge, sottolineando poi come questi dati “sottostimano l’importanza della Cina, considerate le politiche di gestione delle filiere logistiche attuate dalle maison del lusso che spesso non servono il mercato cinese direttamente ma tramite la Francia (e in passato anche la Svizzera)”.
MADE IN ITALY A DUE VELOCITÀ
Al momento, tuttavia, il rallentamento cinese sembra essere ancora poco visibile sul settore moda italiano nel suo complesso. “Nei primi otto mesi del 2024 – spiega De Felice – gli invii di prodotti moda italiani in Cina sono rimasti in territorio ampiamente positivo (+9,2%) grazie al boom dell’abbigliamento (+27,3%) che più che compensa la sostanziale stabilità per il tessile (+0,8%) e il calo per la filiera della pelle (-5,6%), che appare il settore più colpito dal ripensamento delle scelte dei consumatori cinesi orientati verso mercati limitrofi con prezzi inferiori”. Più evidenti, sottolinea l’analista di Intesa Sanpaolo, invece, i riflessi sull’andamento della filiera: “Nei primi otto mesi del 2024 la produzione industriale si è ridotta del 10%, con risultati nettamente peggiori per le calzature e la pelletteria. In netto calo anche il fatturato che nei primi sette mesi si è contratto dell’8,6%, con solamente la maglieria in territorio positivo”.
Prendendo in considerazione le rilevazioni di fonte cinese comunicate da Ice Pechino, il panorama si conferma più critico per il sistema moda che nella sua complessità rappresenta più del 20% dell’export italiano in Cina. Nel periodo gennaio-agosto del 2024 l’Italia ha realizzato vendite per 4,2 miliardi di dollari circa (-5,4 per cento). Nelle calzature, in particolare, le esportazioni italiane verso la Cina hanno totalizzato 946 milioni di dollari, con una quota di mercato del 23% e una contrazione del 5 per cento; la pelletteria ha visto diminuire l’export del 14 per cento (a 1,6 miliardi di dollari); il tessile ha registrato un -3% e l’abbigliamento invece un +4 per cento. Dietro ai cali, spiegano da Ice Pechino, c’è non solo il rallentamento cinese, ma anche il fenomeno “dell’acquisto di marchi di alta gamma cinesi, sempre più presenti nel panorama della moda locale, che combinano standard qualitativi apprezzabili ad un ritrovato orgoglio per gli acquisti di prodotti Made in China”. In pratica, i cinesi spendono meno di prima e vedono con meno desiderio i prodotti e i marchi stranieri. Ciononostante, la moda italiana in Cina resta “apprezzata e riconosciuta nella sua iconica rappresentazione”,conferma Ice Pechino, sebbene i dazi (dal 10 al 20% nel calzaturiero e nella pelletteria, e dal 12 al 25% nell’abbigliamento) rappresentino barriere non trascurabili.
ALL’ESTERO SI CONTINUA A SPENDERE
Se la spesa dei clienti cinesi in Cina fa levare non poche preoccupazioni, la situazione dei turisti cinesi all’estero tratteggia un quadro ancora differente. Oltre al trend di shopping in Giappone, tendenza emersa negli ultimi mesi complice la debolezza dello yen che rende più competitivi i prezzi del lusso, anche in Italia i dati sono in aumento.Secondo le rilevazioni di Global Blue relative al mese di settembre, la Cina si conferma la seconda nazionalità per contribuzione alla spesa tax free a Milano durante la fashion week con una quota del 13%, dopo gli Stati Uniti in vetta con il 21 per cento. A settembre la spesa tax free degli shopper cinesi ha mostrato uno slancio positivo anche in Europa, con una crescita dell’11% registrata rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Anche durante la Golden Week, altro termometro chiave per comprendere l’andamento del turismo cinese in Italia e nel mondo, i dati nel Belpaese sono in progresso. In Italia lo shopping cinese è aumentato del 28%, con un recovery del 60% in confronto ai livelli del 2019. Inoltre è cresciuto anche lo scontrino medio: in media si spende il 39% in più.
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