La «bomba» del Duce che non esplose mai

AGI - La socializzazione delle fabbriche più volte annunciata doveva realizzare un “ordine nuovo” e  il consenso al fascismo repubblichino. Raffica di  scioperi da marzo 1945 e fino alla liberazione   Adolf Hitler aveva espresso il suo totale disappunto quando il 14 novembre 1943 l'Assemblea nazionale del Partito fascista a Verona aveva scelto come denominazione dello Stato, nato con il ritorno di Benito Mussolini sulla scena politica, quella di Repubblica Sociale Italiana. Non c'era la parola “fascista” e il Führer invece la pretendeva affinché ne fosse chiara la matrice. Erano state accantonate anche le ipotesi di Stato fascista repubblicano e Stato nazionale repubblicano, sia perché il Duce voleva un richiamo nazionale e non ideologico, sia perché gli bruciava ancora la totale inazione dei fascisti alla sua defenestrazione del 25 luglio e alla sua liberazione dall'albergo-prigione sul Gran Sasso il 12 settembre. Quel “sociale”, adottato ufficialmente il I dicembre per un‘entità st

La «bomba» del Duce che non esplose mai
AGI - La socializzazione delle fabbriche più volte annunciata doveva realizzare un “ordine nuovo” e  il consenso al fascismo repubblichino. Raffica di  scioperi da marzo 1945 e fino alla liberazione

 

Adolf Hitler aveva espresso il suo totale disappunto quando il 14 novembre 1943 l'Assemblea nazionale del Partito fascista a Verona aveva scelto come denominazione dello Stato, nato con il ritorno di Benito Mussolini sulla scena politica, quella di Repubblica Sociale Italiana. Non c'era la parola “fascista” e il Führer invece la pretendeva affinché ne fosse chiara la matrice. Erano state accantonate anche le ipotesi di Stato fascista repubblicano e Stato nazionale repubblicano, sia perché il Duce voleva un richiamo nazionale e non ideologico, sia perché gli bruciava ancora la totale inazione dei fascisti alla sua defenestrazione del 25 luglio e alla sua liberazione dall'albergo-prigione sul Gran Sasso il 12 settembre. Quel “sociale”, adottato ufficialmente il I dicembre per un‘entità statale riconosciuta solo dai Reich e dai suoi satelliti, richiamava la sua formazione socialista e anticipava l'intenzione di creare un consenso popolare proprio con una rivoluzionaria iniziativa politica che lui stesso chiamava “la bomba” perché una volta innescata ed esplosa, non avrebbe consentito di tornare indietro.

 

Mussolini convinto della collaborazione tra capitale, lavoro e Stato

 

La «Premessa fondamentale per la nuova struttura dell'economia italiana» era stata avanzata dal ministro dell'Economia Angelo Tarchi nel Consiglio dei ministri del 13 gennaio 1944, e per Mussolini quella era la premessa fondativa della Repubblica di Salò, con l'obiettivo di compattare il popolo al regime con la promessa di dividere gli utili delle entità produttive, l'assicurazione della giustizia sociale, la cogestione delle fabbriche e lo stemperamento delle tensioni tra le diverse fasce che componevano la realtà di quella metà dell'Italia. Da giornalista esperto l'aveva annunciato in prima pagina il 13 febbraio sulle colonne del Corriere della sera con un titolo a nove colonne: «Il decreto del Duce per la socializzazione delle imprese». Secondo lui è quello il passaggio verso la realizzazione di un nuovo ordine sociale, attraverso «l'azione delle armi con l'affermazione di un'idea politica» che, sostiene, realizzerà la distribuzione armonica della ricchezza, assicurerà la giustizia e spazzerà via la concezione del capitalismo di Stato sostituita dalla «collaborazione del capitale e del lavoro alla vita dello Stato».

 

I tedeschi non trattano con il governo della Rsi ma con gli industriali

 

Per i tedeschi “la bomba” non dovrà mai esplodere: il vero potere è in mano loro, la Rsi è uno stato-fantoccio e Mussolini governa nella misura in cui Hitler glielo concede. Il Reich non vuole rivoluzioni: pretende solo che l'Italia del nord si impegni al massimo nel sostenere lo sforzo bellico, e infatti i proconsoli nazisti trattano direttamente con gli industriali, mica con il governo repubblichino. Per ottenere quel massimo sono disponibili anche a qualche piccola concessione agli operai. Ma a scanso di equivoci Rudolf Rahn chiede ufficialmente a Berlino se al proclama di Mussolini «ci si deve opporre con fermezza (...) oppure se gli si debba consentire di attuare questo esperimento sotto la nostra guida e la nostra sorveglianza. Questo sempre nel presupposto che in nessun modo possa essere pregiudicata la produzione di guerra». A settembre i tedeschi autorizzano l'applicazione ad appena quattro imprese, a ottobre alle aziende editoriali e della carta. Stop.

 

Doppiogioco col CLN per salvare gli impianti da distruzione e trasferimento nel Reich

 

I grandi industriali, che pure dalle avventure mussoliniane hanno ricavato commesse e ingenti profitti nonostante producessero materiale bellico non competitivo e in quantitativi non in linea con le esigenze di una guerra moderna, hanno già scelto di voltargli le spalle, perché per loro è assai meglio perdere quella guerra ma preservando gli impianti e impedendo lo smontaggio con trasferimento in Germania; e peggio ancora è quello che vedono nei proclami di Mussolini, ovvero una deriva comunista. “La bomba” accentua il fenomeno dell'aiuto sottobanco alla Resistenza e del doppiogioco orientato, poiché toglieva troppo al capitalismo e concedeva troppo poco ai lavoratori. Quanto al Comitato di liberazione nazionale, il punto di vista era che le fabbriche andavano difese perché «questione di importanza politica nazionale e come tale va risolta; non costituisce un problema di polizia interna degli stabilimenti. Il Comitato è disposto a trattare con gli industriali solo a condizione che questi riconoscano esplicitamente l'autorità che ad esso compete di organizzare e dirigere la difesa delle fabbriche, impegnandosi formalmente a non prendere iniziative di altro genere. Gli accordi concreti dovranno essere definiti caso per caso con i comitati di fabbrica che vengono a ciò delegati dal CLNAI».

 

La vendita del Popolo d'Italia e la richiesta di pagare in franchi svizzeri

 

Agli inizi del 1945 il sottosegretario agli Interni della RSI Giorgio Pini stigmatizzava in un rapporto a Mussolini che la dirigenza della Fiat era ambigua appoggiando ora i tedeschi ora gli operai, e a marzo viene messo nero su bianco il collaborazionismo degli industriali lombardi con la Resistenza. Tra marzo e aprile 1945 gli scioperi si moltiplicano: Genova, Torino, Vercelli, Savona, Legnano, Saronno, Sesto San Giovanni, e una raffica continua e inarrestabile a Milano. La socializzazione fascista non si era rivelata, nonostante il convincimento di Mussolini, «la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il totalitarismo di Stato, e supera dall'altro l'individualismo dell'economia liberale che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere “sociale” delle comunità nazionali». Aveva affidato alle categorie operaie le amministrazioni locali e il comparto alimentare ma non aveva riscontrato le auspicate «preparazione specifica» e «coscienza civica». Si era illuso anche di aver recuperato il consenso dopo il bagno di folla del suo ultimo discorso pubblico al Teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944, e in effetti l'entusiasmo era stato sincero e straripante, e avrebbe ingannato chiunque, ma si era rivelato del tutto effimero. A marzo 1945 “la bomba” era già stata del tutto disinnescata e ormai non ci credeva neppure lui. D'altronde quando a ottobre aveva venduto il Popolo d'Italia all'industriale lombardo Riccardo Cella per 75 milioni di lire, aveva voluto essere pagato con l'equivalente in franchi svizzeri.

 

Qual è la vostra reazione?

like

dislike

love

funny

angry

sad

wow