Lidia Bastianich: "Io esule istriana ricordo quel dolore. La verità è una sola"
Nata settantotto anni fa, sotto il cielo di Pola, quando l'Istria ancora pulsava di italianità, Lidia Bastianich ha vissuto sulla propria pelle il dramma di un confine conteso e il trauma dell'esodo. Ha visto la sua infanzia spezzata dall'annessione jugoslava, fino alla rocambolesca fuga della famiglia nel 1956. Trieste, con i suoi campi profughi, diventa il primo approdo. Ma la vera svolta arriva nel 1958, con il salto oltreoceano: gli Stati Uniti, terra di promesse e sfide. Lidia, oggi madre di Joseph e Tanya, vive a New York e da rifugiata è diventa regina della cucina italiana conquistando il palato e il cuore dell'America. Lei è nata proprio nei giorni della firma del Trattato di Parigi che ha coinvolto anche la sua città istriana. Come ha vissuto la sua infanzia? «I miei genitori, profughi istriani, decisero di lasciare l'Istria durante l'esodo, in un momento di grande incertezza, con Trieste divisa tra la zona A e la zona B. Mio padre, che durante la guerra faceva il pompiere,
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Nata settantotto anni fa, sotto il cielo di Pola, quando l'Istria ancora pulsava di italianità, Lidia Bastianich ha vissuto sulla propria pelle il dramma di un confine conteso e il trauma dell'esodo. Ha visto la sua infanzia spezzata dall'annessione jugoslava, fino alla rocambolesca fuga della famiglia nel 1956. Trieste, con i suoi campi profughi, diventa il primo approdo. Ma la vera svolta arriva nel 1958, con il salto oltreoceano: gli Stati Uniti, terra di promesse e sfide.
Lidia, oggi madre di Joseph e Tanya, vive a New York e da rifugiata è diventa regina della cucina italiana conquistando il palato e il cuore dell'America.
Lei è nata proprio nei giorni della firma del Trattato di Parigi che ha coinvolto anche la sua città istriana. Come ha vissuto la sua infanzia?
«I miei genitori, profughi istriani, decisero di lasciare l'Istria durante l'esodo, in un momento di grande incertezza, con Trieste divisa tra la zona A e la zona B. Mio padre, che durante la guerra faceva il pompiere, fu imprigionato dagli jugoslavi per essere italiano e proprietario di un'attività. Nel 1956, quando, decidemmo di fuggire, usammo la scusa di una visita a una zia a Trieste, ma in realtà era un piano per andarcene. Mio padre scappò attraversando il confine, sotto i colpi delle guardie, e ce la fece. A quel punto, capimmo che non saremmo tornati indietro».
Come è cambiata la vostra vita a Trieste?
«A Trieste, senza documenti italiani, la situazione era difficile. I nostri cognomi erano stati cambiati dagli jugoslavi. Nel 1958, chiedemmo lo status di esuli e fummo mandati al Campo San Saba, che oggi è un museo e che ho visitato con i miei figli e nipoti per mostrare loro la nostra storia. Da lì, i miei genitori decisero di emigrare. Nel 1958, il presidente americano Eisenhower aprì l'immigrazione per i profughi in fuga dal comunismo, e scegliemmo gli Stati Uniti, in cerca di libertà e un futuro migliore per me e mio fratello. E così, a New York, ricominciammo da zero».
Quando aveva capito che era arrivata la svolta?
«Il riscatto arrivò nel 1971, il primo ristorante. Volevo condividere la mia Italia, quella delle ricette di mia nonna, lontana dalle divisioni. Poi, nel corso degli anni, la mia attività si è sviluppata. Ora sono i miei figli, Joseph e Tanya a gestirla, portando avanti la nostra passione per la cucina italiana».
Cosa ricorda delle foibe?
«Ricordo le storie che da piccola mi raccontavano gli anziani: famiglie portate via, persone nascoste per paura. Una storia che mi ha segnato è quella di un vicino dei miei nonni, che raccontava di aver sentito le voci di persone intrappolate nelle foibe, che gridavano aiuto. Da bambina, immaginavo un buco oscuro con queste voci che riecheggiavano. È un ricordo che mi dà ancora i brividi”.
Cosa rappresentano oggi luoghi come la foiba di Basovizza, appena sfregiata?
«Sono simboli importanti della memoria e credo sia fondamentale ricordare questi eventi per evitare che si ripetano. Per anni, questi eccidi non sono stati molto presenti nella storia italiana. È importante portarli alla luce, non per rivangare il passato, ma per imparare e costruire un futuro migliore, come vediamo anche in altri conflitti nel mondo. Eventi tragici come le foibe non dovrebbero essere politicizzati, ma studiati e riconosciuti per ciò che sono: una pagina dolorosa della nostra storia».
Per l'Anpi, il fascismo è il colpevole delle foibe; la sinistra su questi massacri persevera con i suoi silenzi.
Come vede la politica in questo contesto?
«La politica è come un fiume che scorre, e ognuno cerca di sfruttarlo a proprio vantaggio. La storia viene raccontata dopo gli eventi e dipende da chi la racconta. Quindi, ognuno interpreta i fatti a modo suo. In sostanza, ogni parte cerca di esaltare sé stessa e criticare l'altra».
Il 10 febbraio si celebra il Giorno del Ricordo. Come lo vive da New York?
«Anche qui a New York, il Consolato organizza eventi per commemorare questa giornata. È un momento importante per riflettere su ciò che è accaduto».
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