Lonely are all bridges: Cinzia Ruggeri, Birgit Jürgenssen e l'arte dell'abito
Lonely are all bridges: la mostra dedicata a Cinzia Ruggeri e a...
Lonely are all bridges: la mostra dedicata a Cinzia Ruggeri e a Birgit Jürgenssen curata da Maurizio Cattelan e Marta Papini a Fondazione ICA, Milano
Cinzia Ruggeri e Birgit Jürgenssen non si sono mai incontrate in vita, ma in mostra sì. La prima nasce a Milano nel 1942, un'artista interdisciplinare che cammina tra il mondo dell'arte, della moda e del design con ironia e leggerezza. Nasce a Vienna sette anni dopo la seconda, artista in senso stretto che sperimenta col disegno, la fotografia e la scultura, senza mai uscire dall'Austria. Restano, per tutta la vita, a quasi 900 chilometri di distanza l'una dall'altra. Secondo Maurizio Cattelan e Marta Papini, le due condividono la capacità di essersi fatte ponti e collegato le sponde. Solitari sono i ponti, recita la poesia che dà il titolo alla mostra Lonely are all bridges a Fondazione ICA – inaugurata il 16 gennaio e visitabile fino al 15 marzo 2025 – che Cattelan e Papini hanno dedicato alle due artiste immaginandole amiche in conversazione. La poesia l'ha scritta Ingeborg Bachmann, austriaca come Jürgenssen, e dice: «È meglio vivere affidati alle sponde / ora all'una ora all'altra». La sponda sta per scegliere per tutta la vita di dedicarsi a un'arte sola: nessuna delle due l'ha mai fatto. Hanno costruito ponti e attraversato arte, moda, design e fotografia sfidando rigorosamente le convenzioni.
Scavando in profondità, i due curatori hanno scoperto che le due artiste sono accomunate dagli stessi desideri e fascinazioni: «la loro ricerca parte dal corpo della donna: entrambe usano l'accessorio (una scarpa, un guanto, un vestito) come mezzo d'espressione per riposizionare il ruolo della donna nella società. Sono strumenti di conquista dello spazio», mi racconta Marta Papini mentre mi accompagna attraverso la mostra. Si formano come artiste negli stessi anni, i Settanta, un momento in cui le femministe coetanee scendono in piazza e protestano per emancipare la donna dall'ambiente domestico: la loro non è stata una militanza in senso stretto, ma hanno affrontato la questione in maniera più sottile e ironica. Ci introducono al tema le due opere che accolgono nello spazio: Untitled (1977/78) è un autoritratto disegnato da Jürgenssen diventato gigantografia, in cui si ritrae mentre indossa un copricapo che è in realtà un topolino per esprimere quanto si sente piccola nel mondo. Untitled (1977/78) conversa con Chef + Remy (2018) di Ruggeri per il rimando al topolino sulla testa come in Ratatouille che controlla quello che fa l'uomo: sono due guanti bianchi, un cappello da chef e una piuma che solletica chi entra nello spazio. Sono lì per mettere in guardia: dal momento in cui varcherai questa porta, sappi che entrerai nel territorio dell'ironia. Come fa per esempio Housewives’ Work (1973) di Birgit Jürgenssen, che raffigura una donna intenta a stirare un uomo in carne e ossa e a ripiegarlo come se fosse una qualsiasi camicia insieme alle altre. Un commento affilato sulla dimensione domestica a cui è rilegato il femminile.
Poi ci sono le scarpe. Al potere trasformativo delle scarpe col tacco hanno dedicato opere entrambe le artiste. Alla loro capacità di farci diventare altro nel momento in cui le infiliamo: ora una donna sensuale che desidera qualcuno da portare a casa la sera, ora è potente e pronta a presentare un PowerPoint davanti a un pubblico di soli maschi. Se di scarpe Cinzia Ruggeri ha prodotto ready-made anche destinati alla produzione industriale di moda, Jürgenssen si è focalizzata sull'opera nella sua unicità, che sono cioè sculture. Con lei un letto diventa una scarpa, un corvo la cui zampa si trasforma in tacco, la scultura in porcellana di un piede è indossabile come una scarpa. E poi i suoi disegni in cui la lingua del mocassino diventa una lingua vera. Qualche sala più in là appaiono i celebri Stivali Italia (1986) di Cinzia Ruggeri mentre si arrampicano su una scala. È la stanza dedicata alla riflessione sul doppio, caro a entrambe: Jürgenssen lo affronta con un doppio autoritratto: c'è lei con in braccio sé stessa. Si tratta di tutte le moltitudini che contengono in quanto donne e artiste. Anche l'ombra è un topos che le affascina: impossibile non pensare alla Colombra (1990) di Cinzia Ruggeri, una scultura che è in realtà un divano dalla forma umana con le mani chiuse per ricreare l'ombra di una colomba. Jürgenssen gioca con l'ombra attraverso l'obiettivo della macchina fotografica: simula delle sagome con le mani e ci proietta dei giochi di luce e di stelle. Tramite il gioco delle ombre, possiamo trasformarci in altro, in una colombina, in un coniglio: dimenticarci per un po' e semplicemente fingerci altro.
La sala centrale è quella in cui si incontrano perfettamente Cinzia Ruggeri e Birgit Jürgenssen: in Untitled (Improvisation) (1976) l'austriaca ha fotografato la sua mano da cui spunta in modo naturale un tacco, attuando la sua stessa trasformazione in scarpa come oggetto sessuale. Lungo il corridoio sono disposte in fila le scarpe disegnate da Ruggeri rivolte verso il muro. «La differenza tra le due è che le scarpe di Ruggeri si possono effettivamente indossare, pensate per una donna nuova. Sono scarpe di sfilata, dipinte a mano», spiega Papini. E poi la mano ancora, o meglio le mani, quelle di Ruggeri che in Schatzi sono pronte ad abbracciare la persona che si specchia. Tra specchi, collant, guanti, e scarpe soprattutto, il filo che sottende le opere di Ruggeri e Jürgenssen è l'uso dell'abito e dell'accessorio come espressione di sé della donna nella società. Quanto poco basta per riconfigurare il nostro ruolo nella scala: una scarpa col tacco può fare la differenza, farci diventare una versione più sensuale e appetibile di noi stesse. Che cosa siamo allora quando non cerchiamo di dissimularci attraverso abiti e accessori? Che cosa rimane del nostro corpo che abbiamo solo saputo manipolare? Che idee proiettiamo sugli abiti che ci mettiamo addosso? Provano a rispondere Ruggeri e Jürgenssen, e partono da sé stesse.
Leggi anche:
- "Guardare, guardarsi, esser guardata”: la femminilità allo specchio di Giosetta Fioroni
- Intervista a Marina Apollonio, in mostra alla Peggy Guggenheim di Venezia
- Scomparsa dieci anni fa, Elisabetta Catalano è stata la fotografa che voleva fare assomigliare artisti e attori a loro stessi
- Che cosa vuole dire visitare una mostra sul cinema (che, dopotutto, è una forma d'arte)
- Le fotografie di Peter Hujar sono senza tempo, per questo continuano a parlarci
- Quando Yves Saint Laurent disegnava i costumi di scena per il teatro (soprattutto per i balletti)
- Intervista a Marina Apollonio, in mostra alla Peggy Guggenheim di Venezia
- Scomparsa dieci anni fa, Elisabetta Catalano è stata la fotografa che voleva fare assomigliare artisti e attori a loro stessi
- L'arte moderna e contemporanea arriva a Brera: apre Palazzo Citterio e nasce “la Grande Brera”
- Cosa c'è da aspettarsi dalla nomina di Koyo Kouoh come curatrice della Biennale Arte 2026
- «Non sono mai esistite civiltà senza gioielli». La mostra dedicata alla creatività multiforme di Andrea Branzi
Vuoi ricevere tutto il meglio di Vogue Italia nella tua casella di posta ogni giorno?
Qual è la vostra reazione?