Non usare parole negative per 30 giorni, benefici
Ho provato a non usare parole negative per 30 giorni. Seguendo il...
Ho provato a non usare parole negative per 30 giorni. Seguendo il consiglio di un'esperta. Ecco cos'è successo
«Ripetere di frequente frasi come “Non ce la faccio più” o “Capitano tutte a me” rafforza una narrazione che limita le nostre possibilità, perché la nostra mente ci crede e le fa proprie come verità assolute». È quanto mi ha detto, durante un incontro, Sonia Díaz Rois, mentore e coach, nonché esperta di gestione della rabbia. In quel momento, il mio cervello ha fatto un calcolo approssimativo del numero di volte in cui avevo pronunciato frasi analoghe nel corso di quello stesso giorno, e il risultato dell'addizione mi ha a tal punto fatto temere per la mia salute mentale da spingermi ad affrontare un lavoro di autoanalisi.
Siamo le parole che diciamo (o pensiamo)
Ho trascorso la settimana successiva osservando le mie reazioni e prendendo nota di quei pensieri che si formano quasi automaticamente nella nostra mente prima che quest'ultima abbia il tempo di elaborare una risposta consapevole. Così ho potuto constatare quanto le mie parole – pronunciate ad alta voce o formulate solo nella mia testa – fossero cariche di negatività e, peggio ancora, fino a che punto esprimessero una visione pessimistica. «Le parole non solo descrivono la realtà, la modellano», dice Díaz Rois. «Ogni termine che scegliamo attiva dei circuiti nel nostro cervello che influenzano il nostro modo di sentire, pensare e agire. Per esempio, c'è differenza tra “Sono sul punto di esplodere” e “Provo una certa irritazione”, oppure tra “È un totale disastro” e “È una situazione complicata”. Per quanto sottili queste distinzioni possano sembrare, va ricordato che le nostre parole non solo riflettono il modo in cui ci sentiamo, ma condizionano anche la nostra esperienza e la percezione che gli altri hanno di noi».
Díaz Rois sottolinea come le parole possano costruire o distruggere, stimolare o paralizzare, e come il modo in cui ci esprimiamo non influisca solo sulla nostra prospettiva, ma anche su quella di chi ci ascolta. «Una comunicazione carica di lamentele o giudizi negativi espressi in forma assoluta – “È tutto sbagliato”, “Nessuno mi capisce”… – rafforza stati emotivi che ci intrappolano in un circolo vizioso di negatività», avverte l'esperta. Al di là dell'evitare di cedere alla nostra vocazione per il dramma, si tratta di essere il più precisi possibile riguardo a ciò che proviamo, perché questo non solo aiuta a guardare alla situazione con chiarezza, ma apre anche la porta a possibili soluzioni.
Lamentarsi è il modo più comune per esprimere il nostro malcontento. Sebbene possa costituire uno sfogo opportuno e necessario, è importante che non diventi parte integrante del nostro linguaggio. «Come dice lo psicologo e psicoterapeuta italiano Salvo Noè nel suo libro Vietato lamentarsi. Agisci per cambiare in meglio la tua vita e quella degli altri [Edizioni San Paolo, 2017], “Le lamentele sono come le sedie a dondolo: ti divertono, ma non ti portano da nessuna parte”», osserva Díaz Rois, sottolineando come ogni volta in cui pronunciamo una frase come «Peggio di così non potrebbe andare» non stiamo descrivendo ciò che accade davvero, ma stiamo alimentando un atteggiamento che ci scollega dalla realtà e ci trasforma in vittime di qualcosa o qualcuno. «Lamentarsi mantiene la mente concentrata sul problema, anziché favorire la ricerca di una soluzione», fa notare l'esperta. «Indirizza la nostra attenzione verso il passato, richiamando emozioni che ricordiamo come negative e limitando la creatività, la capacità di considerare altre prospettive, la possibilità di cambiare. Le continue lamentele finiscono per danneggiare i neuroni dell'ippocampo, la parte del cervello deputata alla risoluzione dei problemi».
Questo genere di comportamento vi fa pensare a qualcuno di vostra conoscenza? In tal caso, provate a riflettere su come il suo continuo lamentarsi si ripercuote su chi gli sta intorno, creando tensione e bloccando il dialogo. «Invece di fare su e giù sulla già citata sedia a dondolo, possiamo optare per frasi del tipo: “Questa situazione mi sta creando non poche difficoltà, ma vedrò comunque di risolverla”», suggerisce Díaz Rois. «In questo modo, riconosciamo l'esistenza di un problema, ma, invece di restare bloccati nella constatazione della sua gravità, spostiamo l'attenzione sulla sua risoluzione, ovvero sull'azione costruttiva, che è ciò che porta al cambiamento».
Parole e frasi da evitare (e quelle da dire)
Per cambiare il modo in cui ci rapportiamo alla realtà, occorre anzitutto diventare consapevoli delle parole che usiamo. «Se tendete a usare avverbi, pronomi o aggettivi dal valore assoluto come “mai”, “sempre” o “nessuno”, “tutti”, chiedetevi: è davvero sempre così?», consiglia Díaz Rois. «Individuare delle eccezioni ci permette di confutare queste affermazioni assolute e di avere una visione più esatta della realtà». E prosegue: «Provate a sostituire le lamentele con delle domande. Ad esempio: “Cosa vorrei che fosse successo al posto di quello che è effettivamente accaduto?”. Questo è il punto da cui partire per cercare di avvicinarci a ciò che desideriamo. Questo spostamento del focus non significa ignorare ciò che proviamo, ma usarlo come stimolo per agire».
Díaz Rois raccomanda poi di evitare frasi generiche come le già citate “Non ce la faccio più” o “Capitano tutte a me”, perché rafforzano una narrazione limitante a cui la nostra mente finisce per credere. «È come se le parole diventassero un messaggio subliminale che guida silenziosamente le nostre emozioni e decisioni», spiega. «“Non ce la faccio più” suona come se foste sull'orlo di un'apocalisse individuale. Se la trasformate in “Ho bisogno di una pausa”, vi concedete il diritto di fermarvi, ricaricarvi e andare avanti».
Un esperimento: 30 giorni senza parole negative
Dopo aver parlato con Díaz Rois, mi sono resa conto della necessità di modificare il mio modo di reagire alle difficoltà, per verificare se le parole avessero realmente il potere di creare la mia realtà. Così ho deciso che avrei trascorso un mese facendo del mio meglio per non usare parole negative e prestando maggiore attenzione al modo in cui mi esprimo, eliminando completamente (o quasi) le lamentele.
Ammetto che mi ci sono voluti alcuni giorni per adattarmi, ma ben presto ho iniziato ad applicare le nuove linee guida quasi senza rendermene conto. Così, quando tornavo a casa e trovavo la cucina in disordine, invece del solito «Tanto per cambiare, la cucina sembra un campo di battaglia!» ho iniziato a dire cose del tipo: «La cucina è in disordine, qualcuno può aiutarmi a sistemarla?». Sono rimasta sorpresa nel vedere come le mie richieste ricevessero una migliore accoglienza da parte dei miei famigliari e come l'atmosfera a casa, in generale, diventasse più distesa. Era come se tutti fossero stati contagiati dalla mia nuova filosofia di vita.
Ho abbandonato i “mai”, “sempre”, “nessuno” e “tutti”, così da evitare di trasformare qualunque problema in qualcosa di assoluto e permanente. Ora sento che c'è sempre spazio per un piano B, che quasi tutto ha una soluzione e che un brutto momento non deve per forza portare a una brutta giornata. «Questo cambiamento di linguaggio resetta il nostro cervello, lo rende più flessibile e creativo», conclude Díaz Rois. «Le relazioni interpersonali migliorano, perché non siamo più percepiti come persone chiuse nella propria granitica negatività ma come qualcuno con cui è possibile dialogare».
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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Vogue Spain.
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