"Per chi voglio chiedere la pena di morte": il pugno di ferro di Donald Trump

Manca meno di una settimana e i botta e risposta tra i candidati alle Presidenziali americane del 5 novembre si fanno sempre più diretti, sull'onda dell'evento repubblicano che si è tenuto a New York domenica scorsa. Lo spettro del nazismo aleggia infatti tra i Democratici e i media che sostengono Kamala Harris nella corsa alla Casa Bianca: così il fatto che il repubblicano Donald Trump abbia arringato i suoi al Madison Square Garden continua a riportare alla luce l'evento filonazista che si tenne nello stesso luogo nel 1939. Un dettaglio non secondario è che ottantacinque anni fa l'arena newyorkese sorgeva in una zona diversa rispetto a quella attuale, ma a questo punto della campagna elettorale conta ben poco. Il parallelismo è stato riproposto dall'emittente MSNBC e non poteva mancare la risposta di Trump durante un comizio in Georgia, uno degli Stati in bilico: «La nuova linea di Kamala e della sua campagna è che chiunque non la voti sia un nazista». Nel rivolgersi ai sostenitori,

"Per chi voglio chiedere la pena di morte": il pugno di ferro di Donald Trump

Manca meno di una settimana e i botta e risposta tra i candidati alle Presidenziali americane del 5 novembre si fanno sempre più diretti, sull'onda dell'evento repubblicano che si è tenuto a New York domenica scorsa. Lo spettro del nazismo aleggia infatti tra i Democratici e i media che sostengono Kamala Harris nella corsa alla Casa Bianca: così il fatto che il repubblicano Donald Trump abbia arringato i suoi al Madison Square Garden continua a riportare alla luce l'evento filonazista che si tenne nello stesso luogo nel 1939. Un dettaglio non secondario è che ottantacinque anni fa l'arena newyorkese sorgeva in una zona diversa rispetto a quella attuale, ma a questo punto della campagna elettorale conta ben poco. Il parallelismo è stato riproposto dall'emittente MSNBC e non poteva mancare la risposta di Trump durante un comizio in Georgia, uno degli Stati in bilico: «La nuova linea di Kamala e della sua campagna è che chiunque non la voti sia un nazista». Nel rivolgersi ai sostenitori, ha ricordato i suggerimenti ricevuti dal padre nel giudicare le persone: «Diceva sempre: non usare mai la parola nazista». Al contrario, i Democratici «usano quella parola: “è Hitler”, “è un nazista”. Non sono un nazista. Sono l'opposto di un nazista». Quindi la risposta a Harris, che lo aveva etichettato come fascista: «Lei è una fascista, va bene?». Non ha mollato la presa ieri, nel corso della conferenza stampa nel suo quartier generale di Mar-a-Lago, Florida: «Dopo due tentativi di assassinio in poco più di tre mesi, le sue bugie e calunnie sono molto vergognose e non scusabili».

CRITICHE INTERNE
Un approccio, quello della democratica, che non convince nemmeno i suoi, come testimoniano alcune considerazioni riportate da Politico.com tra gli attivisti in Michigan, dove i sondaggi segnano un acceso testa a testa. «Non funziona nelle comunità che lottano per arrivare alla fine del mese. Non possiamo continuare a fare una campagna basandoci sulla paura», è il commento di Sherry Gay-Dagnogo, ex rappresentante del Partito democratico. «Non vedo come possiamo convincere qualcuno con quel messaggio: è rischioso puntare sugli aspetti negativi, perché non piacciono agli elettori indipendenti», le fa eco un'altra sostenitrice. Voci che non influenzano l'approccio degli strateghi della vicepresidente, tanto che Kamala Harris ha deciso di sfidare Trump a sostenere un test cognitivo. È la risposta alla provocazione arrivata dal Repubblicano ad inizio mese con un post sul social Truth, di fronte al fatto che sembrava «lenta e letargica nel rispondere anche alle domande più semplici». Così mentre c'è chi le suggerisce di non rincorrerlo sul terreno delle istigazioni, Harris non ha resistito, annunciando che si sottoporrà al test se lo farà anche il rivale, aggiungendoci il carico in un'intervista alla CBS: «Penso che sia sempre più instabile ed esaltato e sia passato agli insulti perché, in realtà, non ha alcun piano per il popolo americano».

 

 

LE ULTIME PAROLE DI KAMALA
Sempre dalla residenza di Mar-a-Lago, Trump ha riaperto due questioni chiave, criminalità e immigrazione legale, rimarcandone lo stretto legame: «Annuncio che perla prima volta nella mia amministrazione sequestreremo i beni delle gang criminali e dei cartelli della droga e li useremo per creare fondi per risarcire le vittime della criminalità dei migranti». Il pugno duro non finisce qui: «Chiederemo la pena di morte per ogni migrante che entra nel nostro Paese e uccide un cittadino americano o un poliziotto o rappresentante della legge».
La missione è quella di riportare l'ordine nelle città dopo la «carneficina e lo squallore» provocate dalle politiche di Joe Biden e Harris che hanno «cancellato i nostri confini» e «decimato il ceto medio». Parole con una tempistica ben precisa, perché pronunciate a poche ore dall'appuntamento di Washington (nella notte italiana tra martedì e mercoledì) con Harris chiamata a lanciare il messaggio finale per convincere gli indecisi. Nel frattempo, ha incassato la fiducia di Barbara Bush, figlia dell'ex presidente George W., che nel fine settimana ha fatto campagna elettorale per lei in Pennsylvania: «È stato esaltante incontrare amici e elettori», ha svelato alla rivista People. Alle parole di Barbara Bush si aggiunge le perplessità di Nikky Haley, che di Trump è stata rivale durante le primarie: ha fatto sapere di non essere stata mai contattata dall'entourage del tycoon per venire coinvolta nell'ultima fase di campagna elettorale, nonostante la sua disponibilità.

Una presa di posizione destinata a riaprire il dibattito sulla natura del Partito repubblicano, diviso tra l'anima MAGA e quella più istituzionale che non ha mai nascosto un certo imbarazzo nel relazionarsi con Trump e i suoi esponenti. In quest'ottica, il risultato del 5 novembre sarà uno spartiacque nella galassia conservatrice statunitense: la vittoria di Trump sancirebbe la nuova via, una sconfitta potrebbe scatenare una sanguinosa – metaforicamente – resa dei conti nel GOP. Chiara invece la posizione di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post che a questo giro non ha pubblicato alcun endorsement ufficiale per il candidato democratico. In quello che è il suo primo editoriale per la testata, Bezos ha respinto le insinuazioni che sulla decisione pesi un accordo con Trump per un eventuale tornaconto post-elettorale: «Non c'è stato alcun quid pro quo di alcun tipo».

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