Permessi 104: per la Cassazione legittimo il licenziamento per uso improprio

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La Corte di Cassazione ha messo un punto fermo sui casi di legittimo licenziamento su un tema delicato e ricorrente: l’abuso dei permessi retribuiti previsti dalla Legge 104/1992.
In un sistema che tutela la dignità dei lavoratori e il diritto all’assistenza delle persone con disabilità, episodi di abuso rischiano di minare la credibilità di strumenti legislativi fondamentali. Questa sentenza, oltre a fare giurisprudenza, riafferma la necessità di mantenere alta l’attenzione sul corretto utilizzo dei benefici sociali, nell’interesse tanto dei lavoratori quanto della collettività.
Ecco tutti i dettagli su quest’ultima pronuncia nel solco di altre recenti ordinanze.
Permessi 104: per la Cassazione legittimo il licenziamento per uso improprio
Con l’ordinanza n. 8342 del 30 marzo 2025, i giudici della Sezione Lavoro hanno confermato il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, anziché prestare assistenza alla suocera disabile, come dichiarato, impiegava quei giorni per attività personali all’interno dell’agenzia della moglie.
Una decisione che non solo chiude un lungo contenzioso iniziato nel 2017, ma ribadisce un principio fondamentale: i permessi per l’assistenza a familiari con gravi disabilità non possono essere piegati a scopi estranei alla loro funzione, pena la compromissione del rapporto fiduciario con il datore di lavoro.
Un caso emblematico per chiarire i limiti dei diritti
La vicenda riguarda un lavoratore romano, dipendente di un’azienda privata, che aveva usufruito dei permessi previsti dall’art. 33 della Legge 104 per assistere la suocera, ma che, secondo quanto emerso da un’indagine interna, trascorreva quel tempo nella sede dell’agenzia intestata alla moglie. I detective incaricati dalla società hanno confermato in giudizio che l’uomo, durante le giornate in cui avrebbe dovuto occuparsi della parente, riceveva clienti e svolgeva regolari attività d’ufficio, arrivando persino a utilizzare come recapito dell’agenzia la propria e-mail personale.
Le tappe giudiziarie: dal reintegro al licenziamento definitivo
In primo grado, il Tribunale di Bari aveva dato ragione al lavoratore, annullando il licenziamento e imponendo il reintegro. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ribaltato questa decisione, evidenziando la mancanza di un nesso concreto tra il tempo fruito e l’effettiva assistenza prestata, giudicata occasionale e poco significativa. La Cassazione ha quindi respinto in via definitiva il ricorso del dipendente, giudicando inammissibili le obiezioni presentate e confermando l’impianto probatorio delle sentenze precedenti.
Secondo la Suprema Corte, la “congruità” dell’assistenza – pur non dovendo essere continua – è un criterio imprescindibile. L’impegno verso il familiare non può essere simulato, né confuso con altre occupazioni che esulano completamente dall’ambito della cura.
Permessi non equivalgono a giorni di riposo
Uno degli elementi più rilevanti sottolineati nella sentenza è il richiamo al dovere di coerenza tra la richiesta di permesso e le reali necessità del familiare assistito. Attività come fare la spesa, accompagnare a visite mediche o occuparsi di incombenze quotidiane rientrano nelle mansioni ammesse, purché siano svolte esclusivamente per conto del disabile. Diversamente, si configura un uso distorto dello strumento previsto dalla legge.
Nel caso specifico, l’unico episodio documentato di accompagnamento al medico è stato ritenuto insufficiente a dimostrare un impegno reale e costante. Persino il professionista sanitario non ha saputo confermare l’identità dell’accompagnatore della donna, ridimensionando ulteriormente le argomentazioni difensive del lavoratore.
Una questione di fiducia e correttezza
La decisione della Cassazione assume un significato che va oltre il singolo caso. Rappresenta un messaggio chiaro a tutto il mondo del lavoro: i benefici previsti dalla legge 104 non devono trasformarsi in strumenti di comodo. Il diritto all’assistenza non può prescindere dal rispetto delle regole, né può essere utilizzato come escamotage per ottenere giorni liberi o secondi impieghi mascherati.
La condanna del dipendente al pagamento delle spese legali, pari a 4.700 euro, chiude un capitolo giudiziario lungo e complesso, ma soprattutto rafforza la linea giurisprudenziale che da anni insiste sulla responsabilità individuale nella fruizione dei permessi.
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