Standing ovation per Putin e Trump: la drammaturgia degli autocrati e la rappresentazione della forza
Nella foto: Trump e Putin a Helsinki nel 2018 ©Kremlin.ru, commons.wikimedia.org L’ultimo...

L’ultimo discorso di Trump al Congresso ha ricordato in modo spaventoso le conferenze del Partito Comunista dell’URSS e del partito Russia Unita di Putin. La drammaturgia degli autocrati segue uno schema collaudato: discorsi di un’ora da parte del capo di Stato, l’annuncio di successi sulla via di un futuro glorioso e, soprattutto, l‘identificazione dei nemici interni ed esterni contro cui lottare, con la promessa che questa lotta porterà unità, sicurezza e prosperità. L’applauso del pubblico è molto più di una semplice approvazione: è un atto rituale di lealtà e una messa in scena performativa dell’unità tra il leader e il suo popolo. Nel 2013, il discorso di Putin all’Assemblea federale dopo la sua rielezione per un terzo mandato è durato più di un’ora ed è stato interrotto 34 volte dagli applausi. Un nuovo record è stato stabilito nel 2024, quando Putin ha parlato per quasi due ore, interrotto da 116 standing ovation – come Sergei Mironov, presidente del partito Russia Giusta, ha annunciato con orgoglio. Trump non ha ancora eguagliato il miglior risultato di Putin, ma ha ancora quasi quattro anni di mandato.
Il trionfo di Trump negli Stati Uniti è più di un singolo risultato elettorale: è il sintomo di un cambiamento tettonico nell’ordine politico globale. Stiamo vivendo una nuova fase della rivoluzione conservatrice che sta interessando non solo gli Stati autoritari ma anche quelli democratici. Dopo 80 anni gli Stati Uniti dichiarano – e minacciano- di rinunciare alla loro leadership nel mondo democratico. Il rapido avvicinamento tra i governi Putin e Trump segnala la scelta di uno scenario di potere personalista basato sulla critica condivisa dei valori liberali, sul sostegno al populismo di destra e sulle aspirazioni nazionaliste. In questa matrice politica, le istituzioni statali e le leggi sono subordinate alla volontà del leader. Sia Putin che Trump non considerano sé stessi solo come presidenti eletti dal popolo. Attribuiscono la loro legittimità alla provvidenza (Trump in particolare dopo esser scampato a un attentato) e si considerano niente meno che i rappresentanti di Dio sulla terra. Questa narrazione, tipica delle monarchie assolutiste dell’epoca premoderna, permette loro di presentarsi come fonte di potere assoluto, come autorità morale di ultima istanza in materia di volontà popolare: è loro missione e onore assumersi la responsabilità del futuro del Paese. Entrambi promettono ai loro sostenitori non solo sicurezza economica o forza geopolitica: offrono anche un legame emozionale, un senso di potenza e superiorità da conseguirsi grazie all’orgoglio per la grandezza del Paese.
Per l’alleanza Putin-Trump la convinzione della propria eccezionalità e del proprio peculiare percorso storico si trasforma in espansionismo e aggressione nei confronti dei rivali. I due leaders giustificano i loro appetiti geopolitici con interessi di sicurezza nazionale. La guerra in Ucraina viene propagandisticamente inscenata come una difesa contro la minaccia dell’espansione della NATO verso est. Allo stesso tempo, la proposta americana al Canada e alla Groenlandia di unirsi agli Stati Uniti riflette gli sforzi imperiali di appropriarsi di nuvi territori per estendere il mercato. Entrambi gli Stati si profilano come potenze neocoloniali che intendono utilizzare le risorse delle periferie per arricchirsi e affermarsi sulla scena internazionale. Nello spirito del neocolonialismo, l’Ucraina è diventata una preda ambita dalle superpotenze in lizza fra loro. Putin vuole il Paese, Trump il profitto. Entrambi condividono una visione del mondo in cui comandano i forti e i ricchi – tutti gli altri devono obbedire, adattarsi, o quantomeno accattivarsi il favore di un potente protettore.
Sia Putin che Trump condividono evidentemente l’idea di Carl Schmitt, per il quale la sovranità dello Stato è rafforzata dalla capacità della comunità politica di identificare „il nemico“: e sono attivi nella ricerca e creazione di nemici. Per Putin questi sono l’Ucraina, l’Occidente, gli agenti stranieri e i rappresentanti di „minoranze non tradizionali“. Per Trump sono la sinistra, i migranti, i transgender, la burocrazia. Egli ha persino dichiarato che i Paesi confinanti – Canada e Messico – sono fonti di pericolo, focolai di immigrati clandestini, droga e criminalità. Accusando il mondo di arricchirsi a spese dell'“economia di maggior successo al mondo“, ha sdoganato lo slogan populista „America First“. La guerra economica e le tariffe punitive sulle merci internazionali fanno parte del suo repertorio. Trump definisce il suo corso una „rivoluzione del buon senso“. In linea con questa retorica, il Ministero degli Esteri russo descrive la cancellazione degli aiuti militari all’Ucraina e la privazione di informazioni di intelligence da parte degli Stati Uniti come „passi di buon senso“ sulla strada per garantire la pace.
Entrambi i capi di Stato considerano la lingua uno strumento di unificazione culturale e la base dell’identità nazionale. Sia Putin che Trump hanno dichiarato il russo e l’inglese lingue ufficiali, che si sentono in dovere di promuovere. La difesa della popolazione russofona del Donbass è diventata il principale argomento di Putin per alimentare il movimento separatista e giustificare una guerra contro l’Ucraina sotto la bandiera della „primavera russa“. Per il presidente russo, in particolare, il perseguimento dell’egemonia linguistica serve a delimitare le zone di influenza e a giustificare le iniziative espansionistiche. Dal 2014, Putin ha etichettato l’ucraino come „lingua russa sbagliata“ e lo ha ridotto a una sorta di dialetto nelle sue riflessioni sulla „nazione unificata“ di Ucraina e Russia. Negli Stati Uniti, nel Dipartimento della Difesa è in corso un’epurazione linguistica delle narrazioni indesiderate, che comprende la rimozione dei contenuti sulla diversità, l’uguaglianza e l’inclusione. Tutte le istituzioni educative devono essere allineate.
La sfiducia nei confronti del sapere degli esperti e dei media indipendenti è alimentata da Trump e Putin come risorsa per garantire il proprio potere, perché si presentano come le uniche autorità e fonti di informazione affidabili. In questo contesto, nessuno avrebbe potuto immaginare che un pilastro centrale dell’ordine liberale – la libertà di espressione stessa- sarebbe stato minacciato nel Paese più libero del mondo. Trump ha etichettato i media liberi con il termine stalinista di „nemico del popolo“ e li ha accusati di diffondere „fake news“. Ha intrapreso azioni legali contro di loro per intimidire le redazioni con costose cause e mettere sotto costante pressione i giornalisti indipendenti. Come in Russia, anche negli Stati Uniti è il governo a decidere quali giornalisti includere nel pool che accompagna il presidente: quelli allineati sulle sue posizioni sono i benvenuti, quelli che dissentono – o anche solo non lo sostengono apertamente – sono sgraditi.
All’inizio degli anni Duemila, in Russia si è assistito a un processo analogico di allineamento dei media indipendenti. Questo è culminato nella nazionalizzazione della televisione e nell’introduzione de facto della censura dopo l’esilio dei magnati dei media Boris Berezovsky e Vladimir Gusinsky. Il primo è stato trovato poi impiccato nella sua tenuta inglese, il secondo è ancora vivo ma in bancarotta con un debito di 7 milioni di dollari. Questi destini sono un monito per tutti coloro che sono considerati sleali – soprattutto per le élite: Chi si oppone o tradisce il leader rischia non solo la povertà e il carcere, ma anche la morte sociale o addirittura fisica.
Sia al Cremlino che alla Casa Bianca, le deviazioni dalla fedeltà incondizionata sono interpretate come una violazione della fiducia, persino come un tradimento. Analogamente ai rapporti di Putin con gli oligarchi, Trump è riuscito a portare dalla sua parte anche i super-ricchi. Nel 2021, dopo l’assalto al Campidoglio, il proprietario dei social media Mark Zuckerberg aveva ordinato personalmente il blocco degli account Facebook e Instagram di Trump. Tuttavia, dopo la rielezione di Trump, Zuckerberg ha cambiato posizione e ha accettato di pagare a Trump 25 milioni di dollari per l’errore commesso. Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, ha messo in atto una simile metamorfosi: da oppositore di Trump a suo sostenitore. Durante il primo mandato di Trump si è opposto alla sua amministrazione, ma nel 2024 ha vietato ai redattori del giornale di sostenere pubblicamente Kamala Harris – una rottura con la tradizione di lunga data della testata di sostenere il Partito Democratico. La crescente censura si sta trasformando in un’autoregolamentazione informale rispetto a ciò che potrebbe irritare il presidente. L’adulazione delle élite economiche nei confronti del capo di Stato diventa un prerequisito per la loro prosperità.
Entrambi i capi di Stato usano deliberatamente l’umiliazione pubblica per ostentare la loro superiorità personale e il loro dominio assoluto. Il 4 giugno 2009, nella città di Pikalyovo, Putin ha costretto l’oligarca Oleg Deripaska a firmare davanti alle telecamere un accordo sulla riapertura di una fabbrica in crisi e sul pagamento dei debiti ai lavoratori. Dopo aver firmato, ha intimato sprezzantemente: „Ridatemi la mia penna!“ – una dimostrazione di potere che ha reso chiaro che lo Stato controlla gli oligarchi. Il 21 febbraio 2022, Putin ha deriso Sergei Naryshkin, il capo dei servizi segreti russi, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza, quando balbettava durante il suo discorso tradendo apertamente il proprio disagio nel affermare l’autonomia delle repubbliche del Donetsks e Luhansk. L’umiliazione è comunemente usata come leva politica anche da Trump: nel 2017, il procuratore generale Jeff Sessions si è ritirato dall’indagine sulle „interferenze russe“ nelle elezioni – con grande disappunto di Trump, che da lui si aspettava fedeltà. Per mesi ha insultato Sessions definendolo „molto debole“ e „inutile“, fino a costringerlo alle dimissioni nel 2018.
La recente disputa tra Trump, Vance e Zelensky nello Studio Ovale ha avuto lo stesso scopo: chiarire la gerarchia e togliere libertà d’azione al partner negoziale. A Zelensky è stato assegnato un ruolo subordinato per marcarne la debolezza e il suo spazio di manovra è stato deliberatamente limitato. L’impulso a umiliare e punire segue la logica della vendetta. Il trattamento riservato da Putin a oppositori come Boris Nemtsov e Alexei Navalny dimostra come egli tratti i suoi arcinemici. Trump ha rinfacciato a Zelensky di essersi rifiutato, per parzialità nei confronti del partito demiocratico, di condurre indagini sul figlio di Biden, sospettato di corruzione negli affari relativi alle risorse energetiche in Ucraina.
Questa prova di forza si basa su una concezione condivisa di una mascolinità aggressiva. L’ex membro dei servizi segreti e il tycoon condividono un codice d’onore comune: rispetto per la forza e disprezzo per la debolezza. Trump si sforza di vedere Putin come un amico. Nei suoi discorsi, ha ripetutamente sottolineato il suo rispetto per lui e lo ha descritto come un leader forte e intelligente. Attraverso i suoi giornalisti di corte, Putin ha inviato simili inni di lode al suo omologo americano. Nella loro visione del mondo, la mascolinità forte è sinonimo di uno stile di governo autoritario e conservatore. Si negozia tra uomini forti, i deboli semplicemente non sono ammessi al tavolo. Chiunque non rientri nel club elitario dei „veri uomini“ e si rifiuti di farsi sottomettere viene sottoposto a umilianti abusi. Quando il primo ministro canadese Justin Trudeau si è opposto ai desideri territoriali di Trump, è stato etichettato come „femmina“ dal consigliere presidenziale Elon Musk. Quasi contemporaneamente, Musk ha preso in giro il cancelliere tedesco Olaf Scholz sulla sua piattaforma X. Lo ha chiamato „Oaf Schitz“ – „idiota di merda“ – un gioco di parole che combina un accenno di stupidità (oaf) con una velata imprecazione (shit). La nuova élite americana vede i liberali europei come leader deboli e non sufficientemente virili. Secondo questa visione, la democrazia li ha effeminati e li ha privati dell’autentica mascolinità, mentre gli autocrati, in quanto „veri uomini“, sono pronti a scompaginare l’ordine internazionale stabilito dal 1945 senza alcun indugio.
I leader autoritari propagandano la norma eterosessuale come parte dei „valori tradizionali“ e lodano la famiglia „tradizionale“ – un uomo, una donna, molti figli – come fondamento di una nazione sostenibile. Già nel 2013 Putin aveva parlato all’Assemblea federale dei „pilastri spirituali“: l’amore per la patria, il rispetto dei costumi tradizionali e della propria storia (così come descritta nella narrazione ufficiale). Da allora, tuttavia, la situazione si è ulteriormente radicalizzata. Nel 2017 è stata depenalizzata la violenza domestica. Nel 2020 la Costituzione ha stabilito che il matrimonio è un’unione tra un uomo e una donna. Dal 2022 è stata vietata la non meglio definita „propaganda gay“. Nel luglio 2023, Putin ha firmato una legge che vieta gli interventi chirurgici per il cambio di sesso. Il 30 novembre 2023, la Corte Suprema ha vietato il, peraltro inesistente, „movimento sociale internazionale LGBT“. Questi „valori tradizionali“ non servono solo a giustificare la repressione in patria, ma anche a legittimare la campagna contro l’Ucraina. L’aggressione contro il Paese vicino è stata presentata come una „crociata“ contro le „libertà di genere“ occidentali, con l’obiettivo di consolidare l’ordine patriarcale conservatore. In questa visione del mondo, il capofamiglia ha il diritto di usare la violenza contro un membro disobbediente della famiglia – anche allargata – che si discosta dalla „norma“ e dalle abitudini consolidate.
Un immaginario simile a quello dei valori tradizionali, propagandato in Russia, si formò anche negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Mentre gli hippy distribuivano fiori agli agenti di polizia durante le proteste contro la guerra in Vietnam e a favore della parità di diritti, le casalinghe conservatrici portavano torte ai politici per esprimere la loro opposizione all‘emendamento per la parità dei diritti (ERA). Con lo slogan „Homemade, not ERA-made“, le conservatrici reagirono alla rivoluzione sessuale e all’ascesa del femminismo con un contromovimento incentrato sull’ideale della famiglia nucleare eterosessuale. Molte casalinghe percepivano le donne economicamente indipendenti e sicure di sé come una minaccia al loro ruolo di madri e mogli premurose che coprivano le spalle ai mariti lavoratori. I repubblicani hanno sfruttato questa narrativa per stilizzare la „famiglia tradizionale“ come la chiave del benessere personale e sociale e per mobilitare un elettorato di orientamento patriarcale.
L’attuale rinascita dei valori tradizionali è la risposta di Trump e Putin al progresso sociale e al tentativo apparentemente fallito di livellare le gerarchie di classe, razza e genere. La rimozione dell’iconica scritta „Black Lives Matter“ dalla via centrale di Washington è altamente simbolica. L’impulso antimoderno innescato si riverbera per decenni. Mentre Trump combatte lo „Stato profondo“ e la presunta burocrazia corrotta, il concetto di „popolo profondo“ di Putin potrebbe piacergli: l’idea che solo il „popolo profondo“ preservi i valori tradizionali e sia la vera fonte della sovranità. È questo popolo che si oppone all’élite liberale e dà credito al leader nazionale in tempi di crisi. Putin ha usato proprio questo argomento per cambiare la costituzione nel 2020 e assicurarsi il governo fino al 2036. Resta da vedere se un presidente americano sarà mai in grado di realizzare uno scenario simile negli Stati Uniti.
Una cosa è comunque chiara: Trump e Putin non sono per sempre, ma l’onda conservatrice è lunga. Le scroscianti ovazioni dei repubblicani all’ultimo discorso di Trump al Congresso sono i primi segnali dell’instaurazione di un culto della personalità che tende all’autocrazia. Questi segnali performativi non vanno sottovalutati – anche se le voci di opposizione al neoeletto presidente statunitense sono ancora forti e visibili, mentre l’opposizione russa è sempre più costretta al silenzio.
Traduzione in italiano di Dr. Cecilia Cristellon
*Alexey Tikhomirov è uno storico dell’Europa orientale presso l’Università di Bielefeld.
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Di Alexey Tikhomirov:
In morte di Alexey Navalny – Corriere d’Italia
La voce contro la guerra viene dalle donne – Corriere d’Italia
Spacciarsi per vittima come propaganda bellicista – Corriere d’ItaliaLa società russa, ostaggio di un dittatore – Corriere d’Italia
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