Valeria Tron e 'Pietra dolce', la "schiusa di una promessa"
AGI - Ci sono libri che ti restano addosso dopo averli letti, ti sembra di aver vissuto quella storia, di essere stato li', di aver udito il rumore di quei passi, il sibilare del vento, sentito l'odore della legna che arde, il fragore dell'acqua della cascata. È il caso di "Pietra Dolce", edito da Salani, il romanzo di Valeria Tron, l'autrice del fortunatissimo "L'equilibrio delle lucciole", romanzo fra i più letti nel 2022. Tron, scrittrice, musicista e artigiana, torna con tutta la bellezza di una scrittura per certi versi onomatopeica, semplice ma efficace, diretta. L'autrice ci conduce in Val Germanasca dove la natura detta le proprie volontà: nella miniera di talco, negli orti, nei boschi, nelle borgate che guardano la cascata. Un giorno tre boati fanno tremare la montagna. Due minatori mancano all'appello e nel piazzale si scava tra i detriti. L'ultimo a uscire dal foro nella roccia è un giovane che tutti conoscono. Si chiama Lisse, senza la U, e in quella lettera mancante è
AGI - Ci sono libri che ti restano addosso dopo averli letti, ti sembra di aver vissuto quella storia, di essere stato li', di aver udito il rumore di quei passi, il sibilare del vento, sentito l'odore della legna che arde, il fragore dell'acqua della cascata. È il caso di "Pietra Dolce", edito da Salani, il romanzo di Valeria Tron, l'autrice del fortunatissimo "L'equilibrio delle lucciole", romanzo fra i più letti nel 2022.
Tron, scrittrice, musicista e artigiana, torna con tutta la bellezza di una scrittura per certi versi onomatopeica, semplice ma efficace, diretta. L'autrice ci conduce in Val Germanasca dove la natura detta le proprie volontà: nella miniera di talco, negli orti, nei boschi, nelle borgate che guardano la cascata. Un giorno tre boati fanno tremare la montagna. Due minatori mancano all'appello e nel piazzale si scava tra i detriti. L'ultimo a uscire dal foro nella roccia è un giovane che tutti conoscono. Si chiama Lisse, senza la U, e in quella lettera mancante è già scritta gran parte della sua vita.
È ferito, eppure a far sanguinare l'animo di Lisse sono ben altri tagli. Quell'uomo partorito in un prato, accolto e nutrito dalla sua gente, è anche l'invisibile, il senza-storia, esiliato entro i confini della sua Valle. Stravolto da quell'ennesima sciagura, Lisse si rifugia in una baracca a Paraut, dove è nato. Giosuè Frillobec, l'amico di sempre che zoppica sulle parole, non può stare a guardare. E con lui nemmeno Mina, che ha cresciuto entrambi come una madre; e Lumiere, il gigante che fa oracoli; e Tedesc, il vecchio liutaio che parla tre lingue. Insieme escogiteranno un piano per riportare Lisse a casa e restituirgli speranza, immaginarsi ancora possibile. L'arrivo di Alma, partita dall'Argentina con una chitarra in spalla, porterà nelle loro vite il canto delle Ande e un sogno gentile da coltivare.
"Prometti che un giorno mi restituirai", ha detto il padre di Tron a sua figlia, mentre piantava un sorbo. In quella frase c'è tanto: "In effetti, Pietra dolce - racconta all'AGI Valeria Tron - è la schiusa di una promessa. Sono passati sedici anni da quel pomeriggio nel quale mio padre stava piantando un piccolo sorbo di fianco alla legnaia. Il seme di questo romanzo è stato piantato nello stesso solco del pollone di sorbo, ma ha dovuto attendere per mettere radice e voce, proprio perché la richiesta era tutt'altro che banale. La mia lingua (il patois) non conosce il verbo 'restituire', al quale preferisce il verbo 'tornare', che necessariamente richiede un movimento, un viaggio, un'attenzione al cammino. Ho compreso solamente lo scorso autunno, mentre tagliavo legna sotto casa, che 'ritornare' ha a che fare con 'minare', ovvero musicare il vuoto, cavarne qualcosa di prezioso e dargli forma, scandagliare la musicalità del silenzio. Ecco, questo è stato l'atto iniziale per mettere a dimora il romanzo: dare voce al linguaggio non verbale, e in questo caso alle cose, magari anche intime e pesanti, che tra me e mio padre non avevano trovato suono. Dopo quindici anni dalla sua morte, sono riuscita a orchestrare i nostri silenzi".
Valeria Tron ha una scrittura che scorre come una musica: "La parola è già Musica, e lo è in modo preponderante in una lingua orale come quella che mi ha allattato i sensi, dove senza quel legante armonico le parole si perdono, o non si interiorizzano con la loro giusta quota di rifrazione. La mia lingua, che chiamo familiarmente patois - spiega l'autrice - è una delle figlie dell'antica lingua d'Oc, e possiede innata l'esigenza di ritradursi in poesia, immagini e melodie nascoste tra le cose. Musica e Poesia sono dunque due punti di fuga che mi ha lasciato in dote e che mi permettono di ispezionare il mondo in modo sensoriale e indagarlo per istinto armonico, veicolando naturalmente non tanto le cose per come le sintetizziamo, ma come le sentiamo legate una all'altra. Dunque la mia scrittura, metabolizzata attraverso il patois, è il rumine di quel che raccolgo nei giorni e cerco di ritradurre. Per questo, forse, lascio libera la pluridimensionalità che avverto e che, il lettore, altrettanto libero di immaginare, disegna attraverso la sua personale sensibilità. Si crea una risonanza, e sta nella libertà di mettere note di colore alle parole sui fogli".
Cosa è il patois?
"È lingua latte. Come ogni lingua di terra - prosegue l'autrice - ha in seno una linfa concreta e una immaginifica. Non posso escluderla dalla mia vita, perché è a lei che devo la libertà di sentirmi sorella alle tante lingue di terra, alle altre culture, capaci di veicolare senza ritrosia bellezza e fragilità, coraggio (nel suo significato intimo, ovvero mettere il cuore) e speranza. Le lingue di terra sono serbatoi di speranza, e perciò preziose a connetterci gli uni agli altri: come lo è la radice. Ecco, per me la radice è un prolungarsi costantemente per intrecciare relazioni, traghettare materie vivifiche come risonanza e prossimità. Non ho mai sentito la radice come qualcosa che ti "costringe" in modo statico, ma come una ragnatela di prolungamenti naturali per sentire l'altro anche a latitudini lontane. Potrei dire che la radice è un punto di partenza importante perché è esattamente li' che attecchisce il nostro germoglio, ma del tutto inutile se non la si tende per comunicare, contaminarsi, allargare la dimensione memorabile che siamo. Non uso mai la parola tradizione, che per altro il patois non contempla.
Preferisco la parola "Contadino", radice diretta di Cultura, che il patois ha inventato secoli fa per invitarci all'accudimento reciproco. Ecco, possiamo essere contadini e dunque annaffiare la bellezza delle diversità insieme per rinnovarci reciprocamente.
In "Pietra dolce", la natura è madre, tutti i personaggi si nutrono a vicenda, si aiutano e si alimentano l'uno con l'altro. Questa 'maternitè' è tipica delle genti della Val Germanasca o è un auspicio?
"Crescere in piccole borgate può potenzialmente allargare (è un bellissimo paradosso) il senso di maternità e attenzione verso il collettivo. La maternità per come la sento è un arcobaleno di sentimenti atti ad accudire la vita, a prendersene cura. In Pietra dolce ho tratteggiato otto di questi sentimenti, senza recintarli in genere o specie, perché è importante sentirci tutti coinvolti nell'accudimento. Provo a sintetizzarli.Il Dono della vita: la donna che ha partorito Lisse nel prato; l'Ascolto alla vita: Beretta, la capra che per prima lo allatta e lo scalda. La Respinsabilità: la vecchia Ghit che lo accoglie e gli regala un nome; l'Obbedienza alla vita: la giovane Denise che si sente chiamata a crescerlo; la Cura: Mina, la donna che è madre di tutti pur senza aver generato figli naturali; la Fidicia: uomini di miniera che ripongono la loro vita nelle mani dell'altro; la Riconoscenza: Lisse e Giosuè, fratelli d'elezione e materni uno con l'altro; la Promessa: il canto più alto che ci muove alla prospettiva di nuova vita. Anche la Natura, per me, è somma, utero fecondo di tutta la propulsione vitale che respiriamo insieme agli altri esseri viventi e ci chiede collaborativi, interattivi, partecipanti. La val Germanasca è il mio punto di partenza e ne sono orgogliosa. Nonostante la sua geografa defilata e appena abbozzata sulle mappe, vista con la mia personalissima e bislacca lente d'ingrandimento, diventa dilatabile ovunque ci siano sentimenti collettivi. La montagna, per me, è dunque questione di attitudine, non di altitudine".
I luoghi descritti sono reali?
"Nei miei due romanzi l'ambientazione è reale - spiega ancora Valeria Tron - solo la toponomastica è stata reinventata per permettere a tutti di sentirla possibile o rifratta nel proprio bagaglio interiore. Ne l'Equilibrio delle lucciole, la borgata interiore che ho descritto e rinominato Aigo (acqua) è Rodoretto, la metà paterna, dove ho la mia casa. In Pietra dolce c'è il Vallone di Massello: la metà materna, dove ho vissuto i momenti più felici e distesi con Memè (nonna) che oggi ha spento novantasette candeline. La miniera descritta in Pietra dolce esiste eccome. Una parte è addirittura visitabile (Ecomuseo miniere Val Germanasca). Mio padre, come molti uomini della valle, ha passato nel ventre di questa terre più di metà della sua breve vita, cavando talco".
E veniamo al titolo: Pietra dolce, perchè?
"Pietra dolce (Peiro douso), non è soltanto la traduzione letterale di talco - sottolinea - ma è metafora esatta di quell'attitudine che hanno testimoniato gli uomini e donne che mi hanno cresciuta. Bisogna pero' sapere come ragiona questo minerale: il talco sa anche essere fragile, non ha paura di cedersi, lasciarsi incidere, farsi polvere, se serve. Pero', sottoposto a calore si fortifica più del marmo. Potremmo dire che la fragilità, una volta accolta, diventa fortezza, specie se si trasforma in speranza. Esattamente il contrario del marmo: tanto bello, lucido, apparentemente forte e costoso, che pero' esposto ad alte temperature si sbriciola diventando calce".
Il prossimo romanzo potrebbe essere ambientato fuori dalle tue terre? Ci hai mai pensato?
"Certamente - afferma Tron - anche se ritenevo importante partire da qui, una valle rurale, defilata dalla modernità o dal turismo massivo, per provare a veicolare un messaggio che fosse più universale possibile: non antico o legato al passato, ma proiettato nei temi e nei tempi contemporanei. Pietra dolce, ad esempio, tocca tematiche quali l'accoglienza, la riconoscenza, la necessità di pace, la prossimità, la clandestinità, la risposta al dolore e la necessità di levarsi di dosso quante più sovrastrutture possibili per riprendersi il proprio spazio di desiderio e umanità. Non a caso nella narrazione la val Germanasca è soprattutto punto di partenza, e ogni personaggio (tranne uno) avrà necessità di viaggiare e spostasi. Voglio certamente esplorare altri luoghi per i miei romanzi, e sono curiosa di mettermi all'opera".
Se "Pietra Dolce" diventasse un film?
"Sarebbe un regalo immenso poter rileggere Pietra dolce o L'Equilibrio delle lucciole attraverso altri canali interpretativi. Se posso sognare - dice la scrittrice - e sognare forte, immagino una regia sensibile, poetica e meticolosa come quella di Giorgio Diritti. Un attore che ammiro per dar voce a Lisse? Mi viene in mente il bravissimo Elio Germano: lui ha l'indole del minatore, e lo si vede da come è capace di scavare e sondare la personalità dei soggetti che interpreta. Si tratta di sogni- conclude - è evidente, ma di sognare per bene".
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